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Evergreen: La pericolosa ritrovata unità dell’Iran – Il Toro e la Bambina

Evergreen: La pericolosa ritrovata unità dell’Iran

La Bambina ripubblica un articolo di attualità

La pericolosa ritrovata unità dell’Iran

Il Toro e la Bambina, 19 febbraio 2022

Una nuova era si è aperta per la Repubblica Islamica dell’Iran, con una ritrovata unità che strizza l’occhio ai riformisti, ma cementa il potente apparato parallelo. Dalla sua fondazione nel 1979, è stata caratterizata dall’esistenza di uno stato nello stato. I premier, alla guida degli esecutivi scelti con suffragio diretto, e i leader supremi, al vertice delle strutture incaricate di preservare gli ideali della rivoluzione, sono sempre entrati in collisione, dando luogo a divisioni profonde.

La traiettoria dell’attuale leader supremo, Ali Khamenei, è dimostrativa di questa dinamica confrontativa. Durante il suo mandato da presidente, dal 1981 al 1989, ebbe importanti scontri di portata ideologica e politica con Ruhollah Khomeini, il carismatico clerico che condusse alla rivoluzione islamica, del quale era stato studente all’università. Dopo la scomparsa di questi, Khamenei ne assunse il ruolo, sostentando, a sua volta, relazioni conflittuali con la lunga linea di capi di governo che sono seguiti, a partire da Akbar Hashemi Rafsanjani, che gli succedette, e Mohammad Khatami, che continuó sulle orme di Rafsanjani.

In tale lacerazione, hanno giocato la loro parte, sia la trasformazione dell’identità del corpo sociale e le sue rivendicazioni nell’ambito delle libertà civili e i diritti umani, sia i bersagli economici e la ricerca di consenso di entrambe le fazioni politiche. I presidenti, dovendo rispondere alle costituency, hanno assunto posizioni, in politica interna ed estera, che l’establishment religioso ha spesso categorizzato alla stregua di sovversive, per il solo fatto di essere laiche e moderatamente liberali. La facoltà di veto del consiglio dei guardiani sull’attività legislativa del parlamento, e il ricorso alla brutalità del corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc, per la sigla in inglese), hanno consentito la coercizione delle istituzioni, nella formula perversa di uno stato contro lo stato. Queste battaglie hanno svuotato di senso l’esercizio democratico, distorto o rallentato la naturale evoluzione della società iraniana. D’altro lato, erano lo specchio di una vitalità riformatrice che l’elezione di Ebrahim Raisi ha coptato e, per il momento, neutralizzato.

Fedele burocrata, Raisi, durante la carriera di magistrato, è stato funzionale alla sommaria eliminazione di migliaia di prigionieri politici e, alla fine degli ottanta, di membri di gruppi armati di sinistra. La sua affermazione è stata pianificata a tavolino da Khamenei per assicurare l’estirpazione di ogni minaccia alla teocrazia iraniana e la preminenza della sua visione nell’amministrazione pubblico e il controllo dei proventi dello stato. Le turbolenze dell’ultimo trentennio, grazie all’eclissamento dei maggiori esponenti dell’opposizione – Rafsanjani è morto nel 2017, Khatami si trova agli arresti domiciliari, e i seguaci di Mahmoud Ahmadinejad sono stati purgati dai centri nevralgici -, si compongono in un’operazione che, cavalcando l’ondata nazionalista, nata dall’impoverimento e l’isolamento della classe media, e causata dalle sanzioni degli Stati Uniti, ha ottenuto l’accettazione di una larga base della popolazione, includendo i moderati. Questa ritrovata coesione, intorno al sentimento antiamericano e la sovranità economica, serve il proposito di un Iran assertivo in una regione instabile e negli equilibri mondiali.

Khamenei è la persona che ha governato più a lungo in Medio Oriente, e la seconda per longevità politica in Iran, dopo lo scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, il quale lo fece arrestare sei volte e, poi, costringere all’esilio. La sua famiglia rimonta al quarto imam , discendente diretto di Maometto, riconosciuto dagli sciiti. Ha sovrinteso ripetute proteste massive e scioperi generali nel 1994, 1999, 2009, 2011-12, 2017-18, 2018-19 e 2019-20, e ha visto passare sette presidenti della repubblica – Rafsanjani, Khatami, Ahmadinejad (2 mandati), Hassan Rouhani (2 mandati), Ebrahim Raisi -, rappresentando con il nezam (il “sistema”, dal parsi), la perpetuità del potere. Tutti i presidenti hanno lanciato e perseguito un manifesto di cambio, movimenti sociali hanno preso forma, e le mobilitazioni di lavoratori e studenti sono arrivate a scuotere il sistema –nel 2009, si giunse quasi a un punto di rottura per gli eccessi della repressione dell’Irgc. Il sistema, tuttavia, ha saputo rinnovarsi, con astuzia, nel linguaggio, la narrativa, e le apparenze dei modi, sino a fagocitare il risentimento popolare e la paura collettiva.

Per decenni, Khamenei ha nutrito fondati timori che la società civile fornisse la spinta determinante affinché il governo di turno rovesciasse il nezam e si è speso per evitarlo, con qualsivoglia mezzo, non essendo immaginabile una circostanza in cui gli avversari potessero identificarlo con un veicolo per la soddisfazione delle proprie aspirazioni. Donald Trump ha creato le condizioni, rescindendo, in via unilaterale, dagli accordi sul nucleare (Jcpoa, per la sigla in inglese), e tornando a imporre le sanzioni in precedenza sollevate. Nel contesto dato, solo lo stato parallelo si è dimostrato in grado di dare ossigeno all’economia, aiutando a circonvenire l’impasse delle transazioni finanziarie per il commercio estero, pur a cambio di un lauto profitto; e attuando da deterrente degli Stati Uniti, con attacchi mirati in Arabia Saudita, Golfo Persico e Iraq. L’errore di Washington è consistito nell’adottare misure di massima pressione, a impatto orizzontale, senza prendere in considerazione le significative differenze politiche esistenti, che gli hanno alienato l’esecutivo, altri antagonisti dell’élite, e la cittadinanza, in generale. In ultima istanza, ha abbattuto le barriere e facilitato la concrezione di un patto per interessi superiori, facendo del nezam il campione del patriottismo contro l’atteggiamento draconiano di Trump.

Raisi è l’incarnazione di questo processo. Vengono vanificati gli incessanti sforzi di Rafsanjani (bandito dal presentarsi per un ulteriore termine), e i suoi alleati, che dalla fine del mandato, nel 1997, cercano di far transitare il paese fuori dalla fase rivoluzionaria, con l’idea di integrare l’Irgc nell’esercito, concentrare il potere decisionale negli organi esecutivi e legislativi, e stringere legami con gli Stati Uniti e l’Europa. Passano in secondo ordine, incluso la stagione liberalizzatrice di Khatami, la cui elezione venne propiziata da Rafsanjani, quando emersero media e intellettuali che proposero un pluralismo che metteva in discussione il monopolio della verità del leader supremo; e le campagne contro la corruzione e il fondamentalismo religioso di Rouhani, protégé di Rafsanjani, che portò a casa le negoziazioni sul nucleare, iniziate da Khatami, con l’alleggerimento delle penalità imposte da Washington.

Il blocco riformista, alle spalle di Khatami e Rouhani, non ha saputo presentare un fronte unico e un piano coerente. Soprattutto, non ha convinto sul piano delle azioni per la ripresa economica, in un paese con un’inflazione al 40 per cento e il 30 per cento di povertà (15 per cento nel 2017). Le manifestazioni per i diritti umani sono state rimpiazzate dal malcontento per il razionamento di acqua ed elettricità. In questo frangente, Raisi, che nel 2017 aveva perso contro Rouhani, non ha incontrato grande resistenza. Il presidente eletto ha enfatizzato problematiche connesse alla sicurezza e la rivitalizzazione del tessuto produttivo. Il giro di vite più evidente si è dato intorno all’apertura sul Jcpoa. Raisi ha chiarito di non essere conforme solo con alcuni aspetti che concedono agli Stati Uniti di violarlo con impunità.  Si è, anche, avvalso di argomentazioni laiche relative alla lotta contro la violenza domestica e l’intransigenza della polizia morale, dichiarando que questa dovrebbe, piuttosto, occuparsi della dilagante corruzione, e diffondendo immagini di donne sostenitrici che non rispettavano il codice di abbigliamento islamico.

Khamenei ha 82 anni e, con probabilità, Raisi navigherà la designazione del prossimo leader supremo. Le forze che gli hanno guadagnato la presidenza stanno lavorando per spianare il campo, con mira a una successione allineata al progetto politico di Khamenei, nella stagione finale della sua vita, di cui Raisi è un pezzo chiave. Il presidente e il leader supremo saranno espressione unitaria del nezam e l’appropriazione selettiva dell’agenda dei riformisti, ne ridurrá le opportunità di tornare sulla scena. Tutto si regge sul presupposto che la squadra di giovani tecnocrati di Raisi riesca a tranquillizzare i falchi messi all’angolo e rispondere con efficacia ai bisogni della popolazione impoverita. La partita prevede il rafforzamento dell’Irgc per contrarrestare la stretta statunitense, attraverso la rete tessuta in Iraq, Libano, Siria e Yemen, in difesa degli obiettivi geopolitici ed economici iraniani; e l’ampliamento dei vincoli con Russia e Cina, avendo firmato con quest’ultima una partnership commerciale e militare della vigenza di 25 anni.

Con il tavolo sbarazzato dall’esigenza di un riavvicinamento agli Stati Uniti, posta dai riformisti, l’Iran si è liberato dalle complicazioni che ciò ha sempre riverberato a livello domestico. Pertanto, gli esiti diplomatici del Jcpoa, sebbene conservino rilevanza per l’andamento economico, non essendo centrali sul versante politico, non potranno essere utilizzati per sabotare una o l’altra parte, come avvenuto nel passato, e non metteranno a rischio gli equilibri interni. Theran è convinta che gli Stati Uniti siano impegnati, da un punto di vista ideologico, a distruggere la Repubblica Islamica, e che cercheranno di raggirare qualsiasi accordo, in maniera frontale, come Trump, o mascherata, come Barack Obama. Non è, quindi, disposta a rinunciare al programma nucleare e si sta preparando per eventuali ritorsioni. Paradossalmente, il rinnovo del Jcpoa potrebbe rivelarsi incendiario. Se l’Iran pensa che Washington lo utilizzi per diminuirne l’influenza, i suoi nemici lo considerano, invece, un cedimento deleterio per la necessaria sorveglianza della sua espansione.

L’emergente dirigenza, aggregatrice della duplice statualità, che fin qui aveva definido la storia contemporanea dell’Iran, lo colloca in uno scenario win-win, dalla lettura geopolitica del nezam. Gli avvenimenti recenti, e la prospettiva che comportano, gli permettono, mediante compromessi tattici, di trarre vantaggio dall’”asse della resistenza” congegnato dall’Irgc: in primo luogo, riaffermando l’abilità di difesa della propria integrità territoriale, e di quella dei paesi alleati, a fronte della bellicosità di quelli allineati con Washington; in secondo luogo, consolidando il proprio prestigio e capacità di manovra nella diplomazia regionale, i conflitti per procura dove si muovono contrappesi  globali, e negli affari di stati chiave per la gestione di risorse; e in terzo luogo, rafforzando la possibilità di confrontarsi con gli Stati Uniti, in forma aperta e affrancata dal condizionamento di dover raggiungere un’intesa obbligata, su minacce percepite come esistenziali. Senza dubbio, tutto ciò apporta ad acutizzare il deficit democratico. Inoltre, conduce a un incremento delle probabilità di entrare in collisione con l’amministrazione americana, a meno che la cautela di entrambi assesti il dilemma della sicurezza su un approccio transazionale, con un foco centrato in preoccupazioni di proiezione immediata.

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