Immagini iconiche: i bambini si arrendono a Varsavia
Il quartiere Nalewki, nella città vecchia di Varsavia, nel quale gli appartenenti al gruppo etnoreligioso ebraico avevano vissuto nel corso della storia, venne trasformato, il 16 ottobre 1940, dalle truppe occupanti del criminale di guerra, e cancelliere del Terzo Reich, Adolf Hitler, in un ghetto circondato da un muro. Con una grande concentrazione di condomini e privo di spazi verdi, ospitava quasi mezzo milione di individui, la comunità ebraica più numerosa al mondo dopo quella di New York. L’istituzione di un luogo di residenza coatta, dove si soffrivano grandi privazioni e si trovava la morte per mancanza di cibo e cure mediche, rappresentò l’inizio di una violenza programmata che in pochi anni condusse all’assassinio della quasi totalità dei suoi abitanti.
Dal luglio del 1942, i nazisti cominciarono a trasferire 5 mila persone al giorno al campo di concentramento di Treblinka; nel 1943 la popolazione era stata ridotta a 70 mila. Al diffondersi voci riguardanti lo sterminio in atto, e pur nella consapevolezza della tragicità della situazione, venne organizzata una guerriglia al comando del giovane Mordecai Anielewicz. Il 18 gennaio di quell’anno, le SS fecero irruzione con il proposito di un ennesimo rastrellamento. La cellula di Anielewicz, in possesso di armi contrabbandate, si rese protagonista di una strenua opposizione e, nonostante l’uccisione indiscriminata di un migliaio di ebrei, la reazione inattesa indusse le guardie tedesche e ucraine a ritirarsi.
In conseguenza di tali avvenimenti, il 16 febbraio, Heinrich Himmler, criminale di guerra e comandante delle forze di sicurezza del Terzo Reich, ordinò l’immediata liquidazione del ghetto. Il 17 aprile, fece il suo arrivo a Varsavia il Brigadeführer e SS- und Polizeiführer, Jürgen Stroop, con l’incarico di reprimere qualsiasi fenomeno di ribellione. Il giorno per l’avvio dell’operazione fu stabilito per il 19 aprile, vigilia della pasqua ebraica e del compleanno di Hitler. I resistenti cercarono di prepararsi allo scontro, raccogliendo armi e costruendo rifugi e barricate. I nazisti entrarono con autoblindo, cannoni, un carro armato e una colonna di fanti, ma il fuoco incrociato dai tetti e dalle finestre, e il lancio di bottiglie incendiarie, bloccarono le azioni del nemico per i primi due giorni. Stroop fece, allora, ricorso ad artiglieria e lanciafiamme per catturare 5 mila individui disarmati: donne, anziani e bambini.
L’operazione, la cui durata era stata prevista in tre giorni, si trasformò in una battaglia che si protrasse per quattro settimane. I nazisti dovettero collocare esplosivi e cospargere di benzina i pavimenti degli edifici per farli crollare, inondare le fognature e soffiare gas asfissianti in passaggi sotterranei e cantine dove civili e combattenti si riparavano. Solo in questo modo presero altri 25 mila ebrei. La presenza di trincee e tunnel, ma soprattutto la determinazione nel lottare fino alla morte, costituirono un forte ostacolo per l’esercito. La scarsità di munizioni, la penuria di cibo, combinati con la distruzione sistematica e il massiccio utilizzo di cani addestrati per snidare le persone nascoste, tuttavia, fiaccarono la resistenza.
Il 16 maggio, il generale maggiore Stroop comunicò a Berlino che il quartiere ebraico di Varsavia non esisteva più, e che la sinagoga, al di fuori delle mura del ghetto, era stata fatta saltare. I superstiti vennero giustiziati o deportati e l’ultima persona a essere ritrovata viva sotto le macerie fu una ragazza di 15 anni, fatta prigioniera il 13 dicembre. Stroop aveva anche creato un rapporto speciale del suo lavoro: un album rilegato in pelle, con il dettaglio giornaliero e minuzioso di arresti ed esecuzioni, e una serie di scatti per documentare le diverse aggressioni militari alla popolazione civile, inclusa l’immagine del bambino terrorizzato con le mani alzate. Per l’impatto emotivo generato, sebbene l’identità non venne mai confermata, questo divenne il volto dei 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti. La collezione fotografica servì da prova nel processo di Norimberga.
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