Almanacco: l’Intifada di al-Aqsa / Conflitto israelo-palestinese

L’Accordo di Oslo, del 4 maggio 1999, aveva stabilito la creazione di una Palestina indipendente. Ciò nondimeno, dall’avvio delle negoziazioni, nel 1993, sino allo scoppio della Seconda Intifada, il 28 settembre del 2000, ebbe luogo una rapida espansione degli insediamenti illegali. Quest’ultimi raddoppiarono in numero, da 200 a 400 mila, rendendo evidenti le mire del governo di Israele.

In molti, compresa l’amministrazione degli Stati Uniti, avevano raccomandato a Israele di allentare la presa, perché sia il popolo sia le autorità palestinesi avevano raggiunto un punto di saturazione a fronte dell’entità dello sprezzo per il contenuto del patto siglato e il cinismo dello stanziamento incrementale di coloni. In aggiunta, i colloqui di Camp David, di luglio del 2000, si erano arenati, in quanto l’allora primo ministro israeliano, Ehud Barak, e l’allora leader palestinese, Yasser Arafat, erano rimasti su posizioni distanti sui temi candenti dello status di Gerusalemme, la contiguità territoriale e il ritorno dei rifugiati.

Era appena stato osservato l’anniversario della morte delle vittime del massacro di Sabra e Shatila del 1982, di cui l’allora capo dell’opposizione israeliana, Ariel Sharon, era indicato come responsabile, per non aver impedito lo spargimento di sangue, dopo l’invasione del Libano da parte di Israele. In tale clima di frustrazione e rabbia, Sharon violò lo spazio del complesso della Spianata delle Moschee di Gerusalemme Est, dove sorgono i due antichi luoghi di culto al-Aqsa e la Cupola della Roccia, con mille effettivi armati della polizia e dell’esercito.

L’ingiuria, della quale Sharon si rese protagonista, fece riesplodere il conflitto, sebbene la reazione palestinese fosse stata da lungo tempo provocata. A parere degli analisti, Israele voleva invertire la tendenza, a cui era stato costretto dalla pressione del negoziato affinché si arrivasse a un appianamento delle ostilità, e coartare i palestinesi nello status quo dell’occupazione, l’abbandono di ogni pretesa di stabilire la propria capitale a Gerusalemme Est e la rinuncia del diritto dei rifugiati, sancito dalle convenzioni internazionali e la risoluzione 194 dell’Onu, di fare ritorno a case e terre.

L’Intifada di al-Aqsa, considerata dall’opinione pubblica palestinese una forma di protesta legittima attraverso la quale si intendeva provare a migliorare le condizioni in cui versava la popolazione, nonostante l’Accordo di Oslo e a seguito del retrocesso dell’orizzonte politico dettato da Camp David, diede allo Stato d’Israele il pretesto per una brutale repressione. L’obiettivo ero quello di piegare la volontà del nemico e ridurne le aspettative in vista nelle trattative diplomatiche che si sarebbero succedute a quelle del summit fallito.

Le prime giornate della sollevazione furono caratterizzate da grandi manifestazioni, con attività annunciate di disobbedienza civile, ed episodi isolati di lancio di pietre. Esordirono a Gerusalemme e si diffusero con rapidità in Cisgiordania. La risposta fu spropositata e incluse l’utilizzo di proiettili di gomma e pallottole letali sulla folla. Nell’immediato, si diede inoltre un’incursione di terra e aria, con mezzi blindati ed elicotteri, in zone palestinesi ad alta densità abitativa. I soldati spararono 1.3 milioni di colpi, come poi rivelato dall’allora direttore dell’intelligence israeliana.

Tale furia inaudita mostrò con chiarezza non solo che Israele non fosse interessato a una rapida conclusione del conflitto, ma anche, e soprattutto, che fosse intenzionato a militarizzare l’Intifada per screditarla, divergere l’attenzione degli osservatori dagli insediamenti illegali, e trascinare i palestinesi in una contrapposizione frontale, peraltro impari. Nei primi cinque giorni, caddero 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International attestò che la maggioranza delle lesioni erano a danno di astanti civili e che l’80 per cento dei morti nel primo mese non rappresentavano una minaccia reale. Nello stesso periodo, cinque israeliani persero la vita.

Nel corso di questa seconda intifada, durata cinque anni, furono uccisi 4.973 palestinesi, fra i quali 1.262 bambini, 274 donne e 32 addetti dei servici medici, oltre 10 mila bambini rimasero feriti; furono demolite più di 5 mila abitazioni palestinesi, e 6.500 rese per sempre inagibili (stime del Centro Palestinese per i Diritti Umani e Defense Children International). Tuttavia, quando gli israeliani vi si riferiscono parlano soprattutto degli attentati suicidi, omettendo il fatto che i palestinesi cominciarono a ricorrere a questa terribile e disperata tattica dopo più di un mese di brutalità.

I commentatori hanno a lungo argomentato che l’uso eccessivo della forza israeliano fu la causa dell’evolversi della resistenza popolare palestinese in una ribellione armata. In base a queste interpretazioni, il livello di aggressione fu tale da non permettere il mantenimento di una protesta pacifica. Il carattere non violento dell’Intifada di al-Aqsa venne trascurato dai mezzi di comunicazione di massa, così come l’oggetto della sollevazione, che si centrava sull’occupazione riconosciuta dall’Onu, l’accrescimento illecito degli insediamenti antitetico agli Accordi di Oslo, la demolizione di case e la costruzione di una recinzione per controllare i movimenti degli abitanti di Gaza in contrasto con la legislazione internazionale.

Nel 2002, i palestinesi fecero un tentativo per fermare il confronto bellico, quando Arafat sottoscrisse l’Iniziativa di pace araba, lanciata dall’Arabia Saudita. Israele ignorò la proposta e continuò le operazioni. A febbraio del 2003, fonti israeliane divulgarono l’esistenza di un’altra apertura dell’Autorità palestinese per terminare la guerra, anch’essa rigettata, che prevedeva la cessazione degli attacchi contro Israele, in cambio di un ritiro graduale alle posizioni precedenti all’Intifada. Invece, Israele alzò la posta, motivandola su ragioni di sicurezza, e avanzò richieste che includevano l’annessione della valle del Giordano e l’intera Gerusalemme.

Prima dello scoppio degli scontri in atto, i palestinesi avevano perseverato nel denunciare come, a più di vent’anni dall’Intifada di al-Aqsa, gli israeliani continuassero a negare loro ogni diritto, con il muro più volte corazzato, basi e check points attivi, e una colonizzazione de facto del territorio palestinese. Per questa lettura, il silenzio della comunità internazionale avrebbe incoraggiato Israele a commettere ripetuti crimini e flagranti infrazioni.

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