La diplomazia multilivello, e il pensiero di specialisti come Lederach, hanno permeato la logica del peacebuilding, entrando a far parte del linguaggio dell’Onu, dell’Unione Europea (Ue), di importanti organismi regionali e di singoli governi nazionali.
Questa metodica plurisettoriale e interdisciplinaria, attraverso il ricorso a binari eterogenei, o track, in chiave di rete dinamica, contribuisce a promuovere la pace nel mondo in “una maniera olistica e inclusiva” (Dudouet, Eshaq et al., 2018), in negoziazioni formali che vanno oltre il tradizionale intervento esclusivo di parti armate ed élite politiche. La compresenza dell’attivismo di base, la comunicazione, l’accademia, l’impresa, le autorità religiose, favorisce, inoltre, una maggiore interconnessione di intenti (Paffenholz, 2013). Soprattutto, garantisce una più ampia rappresentatività di interessi per la definizione di soluzioni solide e durature e, in molti frangenti, ha generato piattaforme che si sono rivelate fondamentali per sollevare questioni neglette, o sbloccare impasse scaturiti da posizioni e alleanze determinate da affari economici o blocchi geopolitici, a scapito della sicurezza e la vita delle persone.
In tempi recenti, la riflessione sulla diplomazia multilivello ha indotto a una revisione strategica su larga scala dei processi governati dalle Nazioni Unite. La Sustaining peace policy, redatta a partire da un’investigazione trasversale del 2015, incaricata a una commissione di esperti, sull’impatto delle missioni politiche e le operazioni di mantenimento della pace, le seguenti risoluzioni del 2016, approvate dal consiglio di sicurezza (S/Res/2282), e dall’assemblea generale (A/Res/70/262), e il rapporto del 2017 sulle attività a supporto della mediazione del segretario-generale, fra altri elementi di cambio, elevano il ruolo giocato dal pacifismo strutturato – con accento sulle donne e i giovani -, il settore privato e le organizzazioni regionali, a quello del peacemaking e il peacekeeping canonici, auspicando opportune partnership a diversi livelli. Gli stessi rimarcano la necessità di finanziamenti per appoggiarne nel lungo termine le attività di prevenzione, mediazione e ricostruzione del tessuto democratico. Riconoscendo e facilitando l’apporto paritario di tali figure, la nuova architettura della pace rappresenta una svolta concettuale e pragmatica di spessore. Pone, infatti, a disposizione della società civile strumenti per potenziarne azione e incidenza, in un contesto integrato e coerente per la gestione dei conflitti globali.
Sulla stessa linea, si trova Pathways for peace, pubblicato nel 2018, dalle Nazioni Unite e la Banca Mondiale. Lo studio muove dall’enorme costo sociale ed economico degli scontri bellici contemporanei, la cui complessità vede il coinvolgimento di gruppi non statali, attori regionali e internazionali, sfide globali come quella climatica e, ancora, la criminalità organizzata transnazionale, e analizza alcuni casi di successo nella loro risoluzione. Le raccomandazioni che ne derivano sono imperniate nell’imprescindibilità della dialettica fattiva tra stato e società, alla quale si attribuisce rilevanza nell’identificazione tempestiva e la circoscrizione efficace, attraverso un lavoro di diplomazia vera e propria, di quei fenomeni di esclusione dall’accesso a beni e opportunità, dalla partecipazione e il potere decisionale, che potrebbero sfociare in tensioni, antagonismi militanti e prolungate contrapposizioni violente. In questo modo, la società civile assume centralità nel nesso fra le aree dello sviluppo e la sicurezza delle comunità e i paesi.
Numerosi esperti hanno suggerito all’Ue, in forma esplicita e ripetuta, di “rendere operativo un approccio multi-track” (Herrberg, Gündüz et al. 2009). In risposta, nella Global strategy del 2016, questa si è impegnata ad assumerlo a livello locale, nazionale, regionale e globale. Dal canto suo, la Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (Ecowas per la sigla in inglese), in linee guida operative del 2017, ha evidenziato l’urgenza di “forgiare alleanze e coordinamento fra track“. Ed è proprio in questo continente che si rendono evidenti i vincoli intrinseci fra peacekeeping e sviluppo e l’importanza delle dimensioni sociali ed economiche che acuiscono e perdurano le situazioni conflittuali. L’Ecowas e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad per la sigla in inglese), formata dai paesi del Corno d’Africa, in origine istituite con l’obiettivo di promuovere l’integrazione economica, hanno visto espandere il proprio mandato a funzioni di sicurezza regionale, con alterni successi e fallimenti. Malgrado all’inizio si sia privilegiato un criterio in prevalenza militare, che si è rivelato un rischio per le economie nazionali e i programmi di integrazione, le iniziative successive sono state progressivamente orientate nella direzione del soft power e del peacebuilding.
Anche gli stati hanno adottato i concetti e i dettami della diplomazia multilivello in politica estera. Per esempio, la politica per la pace della Svezia enfatizza il pregio e il peso dell’inquadramento della società civile negli ambiti del peacebuilding e lo statebuilding. Nella Strategy for sustainable peace, il governo sottolinea il proprio sostegno a “stadi critici di peacebuiding che devono includere la partecipazione locale”. Il Ministero degli affari esteri tedesco, nel documento marco sulla mediazione per la pace, del 2019, asserisce che “gli approcci multilivello o i dialoghi nazionali incrementano la fattibilità di raggiungere soluzioni comprensive e durature”. La Svizzera proietta una visione in cui si valorizza la prassi bottom-up nei processi di pace, per la quale afferma di trovarsi in una posizione privilegiata in merito a competenze acquisite.
Ciò nondimeno, la poliedricità dei conflitti e la loro frammentazione richiedono ulteriore ponderazione sull’uso effettivo di questa infrastruttura per la pace (Preston MacGhie, 2019) e lo scarto fra il discorso e la pratica degli stati e le organizzazioni internazionali. Mentre già esiste dal lato dell’accademia un corpo di ricerca teorica ed empirica che punta a un adeguamento critico del peacebuilding mirato a spostarne l’asta più in alto (Lidén, Mac Ginty et al., 2009; Hellmüller, 2018 e 2019), la sua applicazione e riuscita sulla trasformazione dei conflitti restano insoddisfacenti, complici mentalità retrive sulle condizioni per la sicurezza, che priorizzano l’opposizione militare, alla cooperazione, l’integrazione e lo sviluppo; la rendita della manipolazione del mercato, e delle economie di guerra, per i paesi con maggiore potere finanziario, tecnologico e industriale; e i vantaggi legati all’allargamento delle sfere di influenza di quelle nazioni con ambizioni egemoniche nell’ordine mondiale.
Questo articolo è stato pubblicato su EinaudiBlog, il blog della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia.
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