Almanacco: Operazione Pilastro di Difesa / Conflitto israelo-palestinese
La Primavera araba, e le imponenti dimostrazioni popolari a Ramallah e Gaza, nel 2011, indussero i partiti politici antagonisti, Hamas e Fatah, a colmare le distanze.Dopo che Mahmūd Abbās, al vertice dell’Autorità nazionale palestinese, dichiarò la volontà di firmare un accordo, l’esercito di Israele uccise due attivisti di Hamas, giustificando l’azione come una risposta all’esplosione di un ordigno che aveva ferito alcuni militari israeliani. L’autorevole quotidiano di Tel Aviv, Yedioth Ahronoth, sostenne che si trattasse di una “premeditata escalation” dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu. In un’intervista, concessa alla Cnn, quest’ultimo affermò che il discorso sulla riconciliazione altro non era che una strategia per la distruzione di Israele e si oppose all’idea di un governo unitario in Palestina, provocando, in calcolata risposta, un costante lancio di razzi contro gli insediamenti illegali, nei mesi successivi.
Il 14 novembre 2012, scattò l’Operazione Pilastro di Difesa. La data fece ritenere che la reazione non dovesse fermare un pericolo reale e fosse, bensì, stata pianificata per altri scopi. La massima intensità dell’offensiva missilistica di Hamas, toccata a marzo e a giugno, era da tempo scemata. A novembre, tuttavia, la tempistica era favorevole, sia sul fronte diplomatico estero sia su quello interno. L’Operazione ebbe inizio, infatti, a ridosso delle elezioni statunitensi che confermarono il presidente Barack Obama per un secondo mandato; circa due settimane prima della votazione all’Onu sull’ingresso dello Stato di Palestina come membro osservatore; e a distanza di alcuni mesi dalle elezioni israeliane, con un evidente ritorno mediatico per la coalizione nazionalista che faceva perno sul Likud, il partito di Netanyahu.
Nei primi giorni, le forze aeree di Israele colpirono, attraverso decine di raid, oltre mille obiettivi, bersagliando, non solo depositi militari, ma anche la sede di Hamas, giornali e televisioni, campi profughi, banche, scuole, ospedali e altri edifici civili. Causarono la morte, di tre cittadini israeliani, e 71 cittadini di Gaza, con un totale di più di 400 feriti tra i civili nella Striscia. Venne eliminato, con un’esecuzione mirata, Ahmad al-Ja’bari, capo di Hamas, che aveva svolto un ruolo di rilievo per il raggiungimento di una tregua stabile con Israele. Netanyahu, e il ministro della difesa Ehud Barak, ruppero le trattative, a motivo della scoperta di un nuovo flusso di armi provenienti dal complesso industriale di Yarmouk, in Siria, poi danneggiato da un bombardamento israeliano. I razzi puntati verso Israele furono in maggioranza intercettati e resi innocui dal sistema Iron Dome. Negli otto giorni di guerra, la più feroce dall’Operazione Piombo Fuso del 2008, vennero uccisi 177 palestinesi, fra cui una trentina di bambini e una settantina di civili non attivi nel conflitto, e sei israeliani, tra cui quattro civili.
La sera del 21 novembre si arrivò a un accordo per il coprifuoco. Lo stesso giorno, Mahmoud Abu Khousa, di 13 anni, venne centrato da un missile pilotato da un drone, mentre si recava in un negozio. Con sé, aveva una monetina con cui comprare una penna per la sorellina; la stringeva ancora quando, in ospedale, un medico gli aprì la mano stretta a pugno. Si trovava in una strada larga, visibile dall’alto. La sorveglianza aerea israeliana avrebbe dovuto essere in grado di vedere che era un bambino. I testimoni riferirono che nei paraggi, in quel momento, non c’era alcun evidente obiettivo militare. Mahmoud rimase vittima di una delle 18 incursioni, documentate da Amnesty International, in cui vennero attaccati civili palestinesi. L’esercito israeliano non fornì mai spiegazioni su questo e omicidi simili. Il procuratore generale militare di Israele ricevette decine di denunce di organizzazioni per i diritti umani, riguardanti casi che potrebbero costituire crimini di guerra, ma non vennero mai aperte indagini penali.
Le ripercussioni di medio e lungo periodo furono enormi. Decine di migliaia di abitanti di Gaza vennero costrette a lasciare le loro case. La gran parte non potette rientrarvi nemmeno dopo il coprifuoco e continuò a convivere con trauma e privazioni. Le famiglie sfollate a causa della distruzione delle abitazioni si contarono a centinaia. A un anno di distanza, non fu possibile avviarne la ricostruzione, per via delle restrizioni imposte da Israele sull’importazione dei materiali edili. Il 1 novembre 2013, l’unica centrale elettrica di Gaza venne costretta al fermo per mancanza di combustibile, mettendo a repentaglio il funzionamento dei servizi igienico-sanitari. L’erogazione proseguì con interruzioni di dodici ore diarie.
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