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Donne nella storia del diritto internazionale dei diritti umani – Il Toro e la Bambina

Donne nella storia del diritto internazionale dei diritti umani

E se il quadro normativo dei diritti umani fosse stato plasmato da donne poi ignorate dalla narrativa dominante? E se queste venissero dal sud del mondo? Uno studio recente dell’Onu traccia la storia di quelle delegate che hanno contestato la supposta universalità dei diritti umani e ne hanno ottenuto la depurazione dagli interessi patriarcali e coloniali degli stati membri, costruendo un linguaggio condiviso intorno al principio di equità e pari opportunità. Lo studio porta, inoltre, alla luce la deliberata cancellazione dalla memoria storica di quelle protagoniste che hanno sostenuto una triplice battaglia contro: i rappresentanti uomini delle delegazioni dei propri paesi, ricettori dei privilegi di un sistema diseguale; i poteri coloniali dell’epoca, in controllo dello sfruttamento dei territori assoggettati; e in qualche caso, le femministe occidentali, concentrate su priorità non sempre coincidenti con le specificità e i bisogni di altre latitudini.

L’introduzione del concetto di non discriminazione in base al sesso, nella Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani, si è dovuto, in larga parte, alle rappresentanti dell’America Latina e l’India. Nel corso del processo di adozione della Carta, nel 1945, le femministe latinoamericane, capeggiate dalla brasiliana Bertha Lutz, ottennero la menzione all’equità fra uomini e donne nel preambolo, la reiterazione della non discriminazione in diversi articoli, e l’approvazione dell’articolo 8 che permette alle donne di assumere incarichi ufficiali nelle varie istanze dell’Onu.

Anche la mozione di introdurre una clausola, nei trattati e le principali convenzioni delle Nazioni Unite, per rimuovere l’applicabilità della dottrina dei diritti umani nei territori non autonomi, venne fermata dall’opposizione delle donne del sud globale. Delegate di Pakistan, Iraq, Indonesia, Egitto, Guinea, Togo, Nigeria, e Perù, misero in questione l’esclusione delle donne dei territori coloniali. Marie Sivomey (Togo), Jaiyeola Aduke Moore (Nigeria), e Jeanne Martin Cissé (Guinea), evidenziarono l’ingiustizia insita nel tentativo dei paesi occidentali di utilizzare gli usi e i costumi locali per alienare le donne di altre parti del mondo dall’esercizio dei loro diritti politici ed economici. Aziza Hussein (Egitto), Artati Marzuki (Indonesia), e Carmela Aguilar (Perù), sottolinearono che il ricorso pregiudiziale alle tradizioni, e le conseguenti limitazioni che si intendeva imporre all’applicazione degli strumenti, non solo restringevano i diritti e le libertà delle donne in determinati contesti, ma erano in contrasto con lo stesso carattere di universalità.

Quando la Dichiarazione, nel 1947, venne presentata all’assemblea generale, fra altri, la pachistana Shaista Ikramullah, contestò la petizione degli Stati Uniti di cancellare l’articolo 16 sui diritti connessi al matrimonio e la sua dissoluzione e conseguì, invece, una menzione esplicita ai diritti delle donne in materia. Nel 1948, l’indiana Hansa Mehta, l’unica donna nominata, oltre a Eleanor Roosevelt, alla commissione per i diritti umani, cambiò alcune definizioni cruciali nel testo: the rights of man (“i diritti dell’uomo”) passò a human rights (“i diritti umani”), e all men (“tutti gli uomini”) diventò everyone (“ognuno”) e all human beings (“tutti gli esseri umani”). Metha venne appoggiata dalla commissione sullo status delle donne, creata l’anno precedente, su pressione della delegata dominicana, Minerva Bernardino.

Negli anni cinquanta, Lakshmi Menon e Begum Shareefah, del nuovo stato indipendente dell’India, criticarono l’astrattezza della Dichiarazione. Le nobili aspirazioni vennero, quindi, progressivamente tradotte in questioni reali, mediante risoluzioni specifiche e convenzioni vincolanti, come quelle sui diritti politici delle donne, e sul consenso al matrimonio, l’età minima e la registrazione delle unioni. La più ampia concretizzazione si diede con il Piano di azione mondiale del 1975, risultato della I Conferenza delle Nazioni Unite sulle donne. Il dibattito sulle differenti condizioni sociali delle donne e la necessità che il femminismo si occupasse dell’iniquità dell’ordine economico internazionale, e il ruolo delle donne nello sviluppo, venne promosso da rappresentanti dei paesi poveri, come la boliviana Domitila Barrios de Chungara.

La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, adottata nel 1979, premessa per una legislazione internazionale sui diritti delle donne come diritti umani, venne redatta nella sua fase iniziale dalla filippina Latitia Ramos Shahani. Il preambolo venne ispirato dall’omonima dichiarazione, che aveva dato inizio ai lavori, scritta dalla ghanese Annie Jiagge, che al tempo era relatrice della commissione sullo status delle donne. La prima Risoluzione sulle donne, la pace e la sicurezza del 2000, dibattuta sotto la presidenza del consiglio di sicurezza della Namibia, venne preparata da rappresentanti di questo paese, fra le quali Monica Ndiliawike, combattente per la libertà, e guidata attraverso le negoziazioni dalle diplomatiche Selga Ndeyapo Ashipala-Musayyi e Aina Iiyambo.

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