Almanacco: l’Intifada delle Pietre / Conflitto israelo-palestinese
L’8 dicembre 1987, alla presenza di centinaia di testimoni oculari, due furgoni di operai palestinesi, di ritorno al campo profughi di Jabaliyya, vennero investiti con violenza, mentre erano fermi al trafficato valico di Erez, al confine nord tra la Striscia di Gaza e Israele, da un autotreno delle truppe regolari, che tolse la vita a quattro persone e provocò diversi feriti. L’omicidio di un uomo d’affari ebreo nei giorni precedenti ne fu, con probabilità, l’elemento scatenante, ma gli israeliani negarono sia l’esistenza di una connessione sia il fatto che la carica fosse deliberata o coordinata, archiviando il caso a incidente di transito. Vale la pena ricordare che un anno addietro, sempre nel mese di dicembre, dimostrazioni in reazione all’assassinio di due studenti di Gaza, nel campus della Birzeit University, da parte di militari, erano state soffocate con pestaggi di attivisti ammanettati, fermi sommari e l’imprigionamento di 250 persone in quattro celle del carcere Ansar 11.
Inoltre, nel gennaio del 1987, era stata rinvigorita la politica di deportazione, inaugurata all’inizio di quella decade. Questa prevedeva trasferimenti forzati di palestinesi lontano dai territori occupati, accompagnati dall’aumento di insediamenti illegali e coloni israeliani, con il fine di minare le rivendicazioni nazionaliste e generare un’annessione de facto. Nei mesi successivi, un bambino di Khan Yunis venne freddato da un tiro intenzionale partito da una jeep dell’esercito, e uno scolaro ucciso nel cortile della scuola con un colpo alla schiena sparato da un colono. Nel corso dell’estate, per ritorsione dell’attentato al responsabile della sicurezza dell’Ansar 11, all’intera cittadinanza di Gaza fu impedito di uscire di casa per tre giorni, durante le celebrazioni islamiche dell’Eid al-Adha, senza la possibilità di rifornirsi di acqua, cibo e medicinali.
A novembre, ebbero luogo molteplici manifestazioni giovanili, in attestazione di una crescente insofferenza per la situazione complessiva e per gli esiti del summit arabo che non aveva dato priorità alla causa palestinese nella discussione politica. Il popolo arabo-palestinese era esasperato da venti anni di occupazione israeliana in Cisgiordania, Gaza e Libano meridionale, con intimidazioni, soprusi, umiliazioni, linciaggi, arresti pretestuosi e detenzioni senza processo, torture, esecuzioni extragiudiziali, demolizioni di case, e integrazione economica a favore degli insediamenti illegali, che in Cisgiordania erano raddoppiati dai 35 mila del 1984 ai 64 mila del 1988. Il pugno di ferro, invece di demolire il morale e indurre ad abbandonare la lotta, aveva alimentato una nuova generazione di resistenti.
Un ruolo importante nella costruzione della dissidenza fu giocato dall’espansione dell’impianto universitario palestinese che, offrendo formazione superiore qualificante ad allievi di borghi rurali e piccole città, aveva plasmato un’élite intellettuale proveniente dagli strati meno abbienti, più propensa alla militanza e al confronto critico sul piano politico. In aggiunta, sebbene il 40 per cento dei lavoratori palestinesi, al tempo dell’Intifada delle Pietre, veniva impiegato in Israele, trattandosi di mansioni non qualificate o semi-qualificate, solo uno su otto laureati poteva trovare un impiego adeguato al proprio livello di educazione. Tutto ciò combinato a un paradigma economico assimilabile in molti tratti a un regime di apartheid, e le derivate ridotte opzioni di crescita, aggravate dalle espropriazioni di terra, il blocco delle coste, e un generalizzato isolamento, avevano radicato forti tensioni rispetto alle opportunità di sviluppo di individui e comunità.
I funerali, ai quali la sera stessa assistettero circa 10 mila residenti, si tramutarono in un’ampia adunata di sdegno. Il 9 dicembre, mentre un numero di leader palestinesi, dei settori popolari e professionali, stavano tenendo una conferenza stampa a Gerusalemme Est, per denunciare il deterioramento del contesto sociale e politico, organizzata in coordinamento con la Lega israeliana per i diritti umani e civili, giunse notizia del decesso di un ragazzo di diciassette anni di Jabaliyya a mano di soldati, e dello sbarramento del campo con barricate di spazzatura, detriti e gomme di macchine, che i giovani stavano difendendo con il lancio di sassi, da cui la denominazione di Intifada delle Pietre. Il giorno dopo, una bomba esplosa al consolato statunitense non provocò vittime.
La rivolta raggiunse presto tutti i territori. Fu caratterizzata da ripetute proteste e atti di disobbedienza civile su scala senza precedenti: il rifiuto di pagare le tasse a Israele e guidare vetture con targa israeliana, scioperi generali dei salariati palestinesi negli insediamenti illegali e nelle fabbriche israeliane, la chiusura degli esercizi commerciali palestinesi, ostruzioni stradali, boicottaggi dell’amministrazione israeliana in Cisgiordania e Gaza. Vennero presi di mira obiettivi specifici, fra cui veicoli bellici, infrastrutture e banche; nessuno delle decine di insediamenti illegali israeliani venne toccato. La repressione fu efferata, ma la resistenza palestinese si mantenne sostenuta e ininterrotta con un’imponente partecipazione. Si protrasse per sette anni, fino al 1993, quando vennero siglati gli Accordi di Oslo, che posteriormente istituirono l’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Israele dispiegò 80 mila effettivi, fece ricorso all’intero spettro di strumenti per inibire e disperdere i manifestanti – manganelli, gas urticanti, cannoni d’acqua, proiettili di gomma, e vere munizioni -, così pure ad arresti di massa e punizioni collettive. La Hebron University rimase inattiva dal 1988 al 1991, le università della Cisgiordania dovettero chiudere per gran parte dell’Intifada, e le scuole non funzionarono per dodici mesi. Nel primo anno, coprifuoco di ventiquattro ore vennero imposti 1600 volte. I centri abitati furono tagliati fuori dal rifornimento di acqua, elettricità e carburante. Nelle fattorie palestinesi vennero sradicati gli alberi e ai contadini fu impedito di vendere i prodotti agricoli. A coloro che si rifiutarono di pagare il fisco vennero confiscate proprietà e licenze. Quanti identificati subirono l’imposizione di severe multe, nuove imposte sulle autovetture, e il sequestro di mobilio domestico, strumenti e macchinari dai laboratori, e merci dagli esercizi commerciali. Interi villaggi, fra i quali si ricordano Al-Shati, Jabalya and Burayj, furono oggetto di bombardamenti a tappeto con gas lacrimogeni. I coloni israeliani vennero ingaggiati in attacchi mirati.
Secondo fonti e inchieste giornalistiche locali (con variazioni nelle cifre di cui si riporta una media rudimentale tra quelle ritenute più attendibili), morirono circa 170 israeliani e 1.500 palestinesi, e vennero feriti più di 3 mila israeliani e 120 mila palestinesi, dal 1987 al 1991. Nel 1988, un dirigente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) venne soppresso a Tunisi da un commando israeliano, rovesciando un’ondata di persone in strada, a cui fece seguito la demolizione di due delle principali moschee di Gaza e l’aggressione dei fedeli raccolti in preghiera. Nella Striscia di Gaza, dal 1988 al 1993, quasi 70 mila persone soffrirono di ferite e complicazioni da inalazione di gas e brutalità di polizia ed esercito. I palestinesi arrestati furono oltre 100 mila e, nel 1990, nella prigione Ktzi’ot, solo uno ogni cinquanta detenuti aveva più di sedici anni.
Israele inabilitò in maniera sistematica il disimpegno delle istituzioni palestinesi e di professioni chiave, come quelle di medici, avvocati e difensori dei diritti umani, compresi quelli per i diritti delle donne, arrestandone, senza giusta causa o processo, i vertici e altre figure imprescindibili. Le misure impiegate vennero condannate da Human rights watch per essere sproporzionate e fu documentato l’uso letale della forza nei confronti di adolescenti e bambini. Save the children stimò che quasi 30 mila minori dovettero ricevere cure mediche per ferite da assalti fisici, nei primi due anni di intifada, e che un terzo di questi aveva meno di dieci anni.
L’Intifada delle Pietre venne sostenuta da gruppi affiliati all’Olp, il partito politico Fatah, il Fronte popolare, il Fronte democratico e il Partito comunista palestinese. Fu coordinata dall’Unified leadership of the uprising, attraverso i consigli municipali, che organizzarono scuole clandestine, e reti per l’assistenza medica e alimentare. L’appello alla popolazione era di unirsi alla resistenza civica senza l’utilizzo di armi per richiedere il ritiro di Israele dalle aree occupate nel 1967, la rimozione di coprifuoco e checkpoint, e la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e la Striscia di Gaza. L’Intifada delle Pietre ruppe l’immagine di Gerusalemme città israeliana coesa ed ebbe un forte impatto sul settore dei servizi e del turismo di Israele. La copertura dei media internazionali non sfociò in azioni concrete per fermare Israele e non impedì il massacro, ma permise a Yasser Arafat, Premio Nobel per la pace nel 1994, di ottenere il mutuo riconoscimento di Israele e l’Olp, il diritto all’autogoverno, e un periodo transitorio che portasse alla definizione dello status permanente della Palestina.
Gli accordi sottoscritti non furono mai rispettati in pieno e il processo negoziale venne ritardato, sabotato e svuotato di significato. Altre sollevazioni per porre fine alla presenza militare di Israele avvennero nel 2000 e nel 2015. Prima, esplose l’Intifada di Al-Aqsa, durata per cinque anni, e repressa con la più massiccia operazione israeliana dalla Guerra dei Sei Giorni che portò all’isolamento di Yasser Arafat, presidente dell’Anp. Poi, scoppiò l’Intifada dei Coltelli, nata su iniziativa di giovani rivoluzionari che però non ebbe mai l’appoggio delle organizzazioni ufficiali della resistenza palestinese.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.