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Grandi momenti della storia: creazione della Corte penale internazionale – Il Toro e la Bambina

Grandi eventi della storia: creazione della Corte penale internazionale

Le origini della Corte penale internazionale (Cpi) risalgono ai tribunali militari, con competenza sui crimini di guerra, istituiti al concludersi del secondo conflitto mondiale. Il primo fu chiamato a giudicare i capi nazisti nel Processo di Norimberga, in seguito alla dichiarazione congiunta di Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito del 1942, e la dichiarazione di Mosca del 1943; mentre il secondo fu quello del Processo di Tokyo, chiamato a giudicare le personalità dell’Impero giapponese, sulla base legale di un procedimento approvato nel 1946 dal comandante supremo delle forze alleate. In particolare, il tribunale di Norimberga, durante gli anni, pronunciò sentenze che ampliarono l’ambito di giurisdizione inserendovi i crimini contro la pace e contro l’umanità.

La campagna per la creazione della Cpi venne lanciata negli anni novanta da una coalizione di 300 Organizzazioni non governative (Ong), tra le quali Non c’è pace senza giustizia, appartenente alla galassia radicale italiana. L’Assemblea generale dell’Onu varò un progetto di codificazione dei crimini internazionali e redazione di uno statuto. A tale scopo, approntò una commissione preparatoria, per approfondire gli aspetti controversi e sviluppare i profili più complessi, alla luce dell’esperienza, a partire dal 1993, dei tribunali ad hoc per le questioni dell’ex-Jugoslavia e del Ruanda. Nel 1996, conclusi i lavori, venne convocata a Roma una conferenza diplomatica di plenipotenziari degli Stati.

La redazione finale si protrasse sino al 1998, anno in cui lo statuto venne rimesso a una seconda conferenza diplomatica. Alle discussioni contribuirono molteplici Ong che avevano sostenuto la campagna per la giurisdizione universale sui crimini internazionali. Lo Statuto di Roma venne approvato con 120 voti favorevoli, 7 contrari, 21 astenuti, e con la firma dell’atto aperta a tutte le delegazioni partecipanti. Le progressive ratifiche permisero, ben quattro anni dopo, di raggiungere il quorum di 60 per l’entrata in vigore del trattato costitutivo.

Washington fu ostile sin dall’inizio e produsse un duro confronto al momento dell’entrata in vigore del testo, persino con l’Unione europea. Nel 2002, gli Stati Uniti approvarono una legge federale, che fu soprannominata “Legge di invasione dell’Aja”, perché autorizza il presidente a utilizzare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense, o alleato, detenuto o imprigionato da, per conto di o su richiesta, della Corte penale internazionale”. L’allora segretario di Stato per gli affari internazionali (1989-1993) e la sicurezza internazionale (2001-2005), John Bolton, in un colloquio con lo scrittore Brian Urquhart, rilasciò la testimonianza, pubblicata nel libro One angry man, secondo la quale ritirare la firma allo Statuto di Roma fu “il momento più felice” della sua permanenza al Dipartimento di Stato, riflettendo un sentimento in generale condiviso nel paese.

La Cpi, a dispetto del contrasto americano, è stata concepita come un tribunale per i cosiddetti crimina iuris gentium, ovvero il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Di recente, è stato aggiunto il crimine di aggressione (art. 5, par. 1, Statuto di Roma). Nonostante il contributo versato nella sua genesi, la Cpi non è un organo delle Nazioni Unite e non va confusa con la Corte internazionale di giustizia dell’Onu, pure se entrambe hanno sede a l’Aja nei Paesi Bassi. D’altro canto, esistono alcuni legami, in quanto il Consiglio di sicurezza ha il potere di deferire alla Cpi situazioni che non si trovano nell’ambito della propria giurisdizione (art. 13b, Statuto di Roma). Dal 2004, inoltre, le è stato riconosciuto lo status di osservatore in seno all’Assemblea generale.

Una ricaduta sulle adesioni già accordate si è avuta in seguito delle iniziative di appoggio, finanche in sede di Unione africana, agli inquisiti dei vertici degli Stati sudanese e keniota, oggetto di indagini della Cpi. Le proteste degli Stati africani si sono centrate su un presunto accanimento contro il continente e le sue prassi di gestione politica. Alla luce di ciò, nel 2016, il Burundi, il Sudafrica e il Gambia, hanno manifestato la volontà di recedere dallo Statuto di Roma, per negare giurisdizione alla Cpi sul loro territorio, ma solo il Burundi, nel 2017, ha confermato la decisione.

Vi aderiscono oggi 124 nazioni, che partecipano all’Assemblea degli Stati parte (Asp), costituente della Cpi, dove i rappresentanti, con uguali diritti, si riuniscono per segnalare situazioni, approvare il bilancio e stanziare i fondi, e ha attribuzioni di controllo e di interlocuzione diplomatica e lobbistica. Fra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, si sono uniti alla Cpi Francia e Regno Unito, mentre Stati Uniti, Cina e Russia ne sono rimasti fuori; 32 paesi, invece, hanno firmato il trattato pur avendo annunciato l’intenzione di non ratificarlo, a questo gruppo appartengono Israele e Sudan. La Cpi è complementare a quella dei singoli Stati, dunque può intervenire se questi non possono o non vogliono agire per punire i crimini.

Le attività ebbero inizio nel 2002, con un nucleo di quattro esperti, ai quali venne affidato il compito di rendere operativa la Cpi. Dapprima, venne disposto uno staff di circa trenta unità; dopo, si procedette all’elezione dei diciotto giudici, a carico dell’Asp; la nomina del presidente, affidata ai giudici a maggioranza assoluta; e del cancelliere, designato dai giudici, tenendo in considerazione i suggerimenti dell’Asp. In seguito, avvenne l’elezione, a maggioranza assoluta e voto segreto dell’Asp, del procuratore capo. Gli organi della Cpi sono quattro e comprendono la presidenza, le divisioni, l’ufficio del procuratore e la cancelleria. Il presidente, per il periodo 2021-24, è il polacco Piotr Hofmański, che viene affiancato da due vicepresidenti, anch’essi eletti dai giudici in consiglio. I mandati sono rinnovabili una sola volta.

La presidenza è garante dell’appropriato svolgimento delle attività della Cpi, con l’eccezione dell’ufficio del procuratore, che deve mantenere un grado di indipendenza, ma con il quale è tenuta a un coordinamento. Le divisioni sono guidate da giudici e suddivise in un numero variabile di camere: divisione preliminare, per l’analisi delle richieste a procedere, la raccolta di elementi processuali e la decisione di ammissibilità; divisione giudicante, per i dibattimenti di primo grado; divisione d’appello, per i ricorsi e l’emissione di sentenze definitive. L’ufficio del procuratore si occupa delle indagini, sostiene l’accusa durante il processo, ed è composto da unità investigative, suddivise in sezioni. I due vice procuratori vengono scelti con il medesimo meccanismo del procuratore capo, ma con nomi scelti da una lista presentata da quest’ultimo. Al momento, il procuratore capo è il britannico Karim Asad Ahmad Khan.

La cancelleria è il motore amministrativo della Cpi: organizza le udienze, assiste i difensori nella preparazione di un’adeguata azione difensiva, regola e garantisce il corretto flusso di informazioni tra accusa e difesa, e vigila per il rispetto del diritto degli imputati a un equo processo con presunzione di innocenza. Per tutelare questo principio, sono state formate associazioni di difesa, e un Consiglio di difesa che fa riferimento alla cancelleria, sebbene questa non ne sia parte integrante. Alla cancelleria sono, poi, affidate le strutture penitenziarie, le unità per la partecipazione e il risarcimento, nonché la protezione e sostegno fisico e morale, di vittime e testimoni, e il programma di comunicazione pubblica. La mansione è ricoperta dal britannico Peter Lewis.

Nel 2006, il generale Thomas Lubanga Dyilo è divenuto la prima persona mai arrestata in base ad un mandato di cattura della Cpi. Il processo, iniziato nel 2009, per il crimine di guerra di “aver coscritto e arruolato bambini sotto l’età di 15 anni e averli utilizzati per partecipare attivamente alle ostilità”, durante la seconda Guerra del Congo, si è concluso con una condanna in primo grado e una sentenza in via definitiva a 14 anni di reclusione, nel 2012. I ribelli sotto il suo comando sono stati accusati di violazioni sistematiche dei diritti umani, inclusi massacri etnici, uccisioni, torture, stupri di guerra, mutilazioni. I processi in corso riguardano i presunti responsabili dei crimini consumati nella Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana, in Uganda, e nel Darfur (Sudan) e, più di recente, in Kenya, in Libia, in Costa d’Avorio, in Mali, in Georgia, e in Burundi.

L’avvio del procedimento può essere attuato da tre fonti diverse: per iniziativa propria del procuratore capo – soggetta al parere di ammissibilità dei giudici preposti e su autorizzazione a procedere della Camera preliminare-, o segnalazione. Quest’ultima può provenire da uno Stato firmatario del trattato, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – che deve far rientrare il suo atto in casi di violazione della pace, minaccia della pace o aggressione -, da vittime, da Ong, o da semplici cittadini. Il Consiglio di sicurezza detiene un potere molto criticato dalla dottrina di diritto internazionale, ovvero la possibilità di richiedere alla Camera preliminare di bloccare le indagini del procuratore per un anno, qualora queste rientrino in un quadro complessivo sotto esame nello stesso Consiglio. La sospensione, nondimeno, deve essere effettuata con all’unanimità.

Alcune affermazioni di Bolton, citate in Calling the shots: How Washington dominates today’s UN, del 1994, esemplificano l’atteggiamento di Washington nei confronti delle maggiori crisi internazionali attuali. A detta di Bolton, le Nazioni Unite “non esistono” e che quello che c’è, per contro, è “una comunità internazionale che alla bisogna viene guidata dall’unico potere reale nel mondo, che sono gli Stati Uniti, quando convenga ai propri interessi e quando riesca ad associare altri alle proprie posizioni”. Bolton aggiunge che “Quando gli Stati Uniti guidano, le Nazioni Unite seguono. Quando conviene ai nostri interessi agire in questo modo, lo facciamo. Quando non corrisponde ai nostri interessi, non lo facciamo”.

Il Dipartimento di Stato, comunque, espresse apprezzamento, nel 2006, per l’estradizione dalla Nigeria, del presidente liberiano, Charles Taylor, imputato per il suo ruolo nella guerra civile, malgrado gli Stati Uniti lo avessero in precedenza appoggiato proprio nel coup d’état che lo aveva condotto al potere. Una leadership irreprensibile era sorta con cui stipulare nuovi affari nella nazione fondata, nel 1847, dalla American colonization society. Nemmeno impedì, nel 2011, l’adozione di risoluzioni che deferivano alla Cpi alcuni possibili crimini dei governanti libici, sebbene gli Stati Uniti avessero mantenuto rapporti di cooperazione con Tripoli per la lotta al terrorismo e l’apertura a investimenti di capitale americano. Gheddafi aveva, però, inaugurato una nuova stagione di interlocuzione economica con Russia e Cina che, tra altri fattori, come le restrizioni all’estrazione di gas e petrolio delle concessioni che stavano per scadere, determinò il suo rovesciamento.

La situazione tornò conflittuale, fino alla minaccia di sanzioni, quando nel 2015 la Palestina depositò lo strumento di adesione al trattato istitutivo della Cpi e, nel 2018, presentò una segnalazione formale al procuratore capo. Il timore palesato era, e resta, quello che un organo giurisdizionale autonomo gestisca l’applicazione del diritto internazionale umanitario nei confronti di Stati alleati, come Israele, e di quelli che ospitano personale militare statunitense, fin qui schermato da ogni possibile persecuzione penale non nazionale, per le attività svolte nell’esercizio della funzione di aiuto allo Stato ospite, nel contrasto a partiti insurrezionali di guerre civili. Solo nel 2021, la Palestina ha superato l’esame preliminare della propria richiesta di apertura di un’inchiesta per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità perpetrati da Israele, anche se da allora non si sono visti progressi concreti.

In violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, è giunta, nel 2020, la decisione del segretario di Stato Mike Pompeo, di imporre un divieto di viaggio al procuratore capo, la gambiana Fatou Bensouda, e ai membri del suo team, con lo scopo di impedirgli di notificare al Consiglio di sicurezza i casi deferiti alla corte dell’Aja. Phakiso Mochochoko, capo della Divisione giurisdizione, complementarità e cooperazione della Cpi, è stato inserito nella lista nera delle sanzioni relativa al congelamento dei beni. L’elemento scatenante è stata la risoluzione della Cpi di accogliere la richiesta di Bensouda di aprire un’indagine sui crimini di guerra in Afghanistan da tutte le parti in lotta, comprese le forze americane. A queste misure si è aggiunto il divieto ai cittadini statunitensi di fornire consulenza come esperti alla Corte penale internazionale.

La Casa Bianca ha, più tardi, emesso un comunicato, coordinato e discusso con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in cui si legge “Nonostante i ripetuti inviti da parte degli Stati Uniti e dei nostri alleati a procedere a una riforma, la Corte penale internazionale non ha intrapreso alcuna azione per riformare se stessa e continua a portare avanti indagini politicamente motivate contro di noi e i nostri alleati, incluso Israele”. Netanyahu ha definito la Cpi “corrotta e partigiana”, definendola “un tribunale politicizzato, con l’ossessione di condurre una caccia alle streghe contro Israele, gli Stati Uniti e altre democrazie che rispettano i diritti umani”.

Singolare è la posizione dell’Ucraina. Questo paese aveva sottoscritto lo Statuto di Roma nel 2000, senza quindi senza l’intenzione di ratificarlo per oltre un ventennio. Le procedure parlamentari corrispondenti sono state accelerate nel 2024, con voto quasi unanime. La legge contiene, tuttavia, una clausola, a effetto della quale per sette anni dalla sua entrata in vigore, l’Ucraina “non riconoscerà la giurisdizione della Corte penale internazionale” sui crimini di guerra “quando, probabilmente, commessi da suoi cittadini”.

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