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Spazi strategici: rotte marittime – Il Toro e la Bambina

Spazi strategici: rotte marittime

La concezione strategica dello spazio è intrinseca alla volontà di egemonia delle nazioni e si declina in differenti approcci. Di fatto, uno degli argomenti dialettici della geopolitica è la contrapposizione fra potenze di terra e di mare. Le prime, come la Germania, la Russia e la Cina, hanno espresso una vocazione al controllo dello spazio confinante. Questa riflette una concezione produttivistica, dove lo spazio vitale è spazio nazionale, destinato a scontrarsi con i limiti dell’espansione territoriale. Le seconde, come la Spagna, l’Inghilterra, l’Olanda, e gli Stati Uniti d’America (Usa), hanno manifestato, invece, una vocazione al controllo di rotte e snodi. Dal canto suo, questa specchia una concezione mercantile, dove lo spazio vitale non ha demarcazioni.

Sebbene la proiezione nello spazio sia in entrambi i casi diretta al possesso e alla soggezione e, allo stesso tempo, l’attitudine delle potenze marittime abbia provocato devastanti dinamiche coloniali, quest’ultima ha contribuito a generare un respiro connettivo universale. L’apertura e il mantenimento di vie marine, e la conseguente fioritura degli scambi, hanno plasmato il mondo come oggi lo conosciamo e, altresì, definito la spartizione di accesso e sfruttamento delle risorse naturali fra le nazioni predominanti. Le potenze di mare hanno prodotto grandi aggregati transcontinentali di relazioni commerciali che hanno preso il nome di globalizzazione.

L’inizio delle rotte oceaniche fu segnato, in età moderna, dalle imprese di Cristoforo Colombo e Vasco da Gama, alla ricerca di un passaggio verso l’India e, dalla fine del XVIII secolo, venne raccordato l’intero pianeta. La costruzione dei canali di Suez in Egitto (1869) e Panama in America centrale (1914) intensificherà questa tendenza, fino a creare delle vere e proprie autostrade del mare, percorse da oltre un milione di imbarcazioni. Il canale di Suez collega il Mar Rosso con il Mediterraneo, permettendo di compiere il viaggio dalla Cina alla Francia in 40 giorni, contro i 50 necessari per circumnavigare l’Africa, e ridando centralità al Mediterraneo. Di recente raddoppiato nella capacità, ospita più dell’8 per cento del traffico planetario. Il canale di Panama collega gli oceani Atlantico e Pacifico, senza dover circumnavigare il Sudamerica, risparmiando oltre 12 mila chilometri. Anch’esso ampliato grazie a un complesso sistema di chiuse, vede transitare circa il 5 per cento della movimentazione.

Il ricorso a questi e altri canali, e lo sviluppo delle navi container, hanno anche determinato un incremento dei carichi. Oggi vengono trasportate 100 volte più merci rispetto a un secolo fa e si è arrivati, da mezzo miliardo di tonnellate negli anni cinquanta, a quasi 13 miliardi di tonnellate di cereali, minerali e idrocarburi nel 2023, con un valore pari al 12 per cento del Pil mondiale. Ciò riduce i costi e conferisce al commercio marittimo il primato sulle alternative esistenti, di cui rappresenta circa il 90 per cento. Le previsione dell’agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo, Unctad, lo indicano in continua ascesa, con una crescita del 2 per cento per l’anno in corso, e del 2.4 per cento tra 2025 e 2029. La competizione fra superpotenze trova, quindi, in mare la sua massima espressione. E l’importanza assunta dall’interscambio tra Europa, Asia e Medio Oriente, rende la regione euroasiatica decisiva per i rapporti di forza.

Bicontinente su cui gravitano materie prime è incorniciato da chokepoint, o colli di bottiglia: gli stretti scandinavi di Kattegat (Svezia e Danimarca) e Skagerrak (Danimarca e Norvegia), lo stretto di Sōya (Russia e Giappone), il canale della Manica (Francia e Regno Unito), lo stretto di Gibilterra (Spagna e Marocco), il canale di Suez (Egitto), lo stretto di Bab el-Mandeb (Gibuti e Yemen), lo stretto di Malacca (Indocina e Malesia), lo stretto di Formosa (Cina e Taiwan), lo stretto di Tsushima (Corea e Giappone), lo stretto di Hormuz (Oman, Emirati Arabi Uniti e Iran), lo stretto di Lombok (Indonesia), e lo stretto di Bashi (Cina e Filippine). Nel 2022, 90 milioni di barili di greggio al giorno – oltre il 60 per cento del commercio di petrolio e oltre l’80 per cento delle importazioni europee – hanno solcato i mari, in vent’anni l’aumento è stato pari al 50 per cento. La maggior parte di essi è passata dallo stretto di Hormuz (un quinto del traffico totale) e da quello di Malacca; seguono il canale di Suez e lo stretto di Bab el-Mandeb, gli stretti turchi e danesi, il canale di Panama e il capo di Buona Speranza. Ciascuno è un tassello nello scacchiere della geopolitica energetica, subordinato a rischi di boicottaggi, attentati terroristici e ostilità belliche.

A emergere, nel nuovo contesto, sono la Repubblica Popolare Cinese e i suoi vicini. Secondo la società di consulenza Alphaliner, tra i primi venti porti commerciali, 15 sono asiatici, dei quali 9 cinesi. In particolare, il successo della Nuova Via della Seta dipende dalla conquista delle rotte che corrono lungo la fascia marittima del Rimland intorno all’Eurasia. Esplicita risposta alla supremazia degli Usa sui mari, è stata interpretata come fuga a ovest dalla pressione statunitense proveniente da sud e da est. Sinora la tattica di Washington per contenere la Cina si è basata sull’ipotetico sbarramento di Malacca, che taglierebbe l’approvvigionamento energetico del paese. L’accesso cinese agli oceani, reso difficoltoso dalla catena di isole che dal Giappone arriva all’Indonesia, passando per Taiwan e Filippine, ha costretto Pechino ad aggirare la tenaglia puntando su interventi infrastrutturali in Pakistan e Myanmar.

Proprio la vigilanza e la gestione delle vie di comunicazione, unita a un impianto ideologico che poggia sul liberalismo politico-economico, e a un mercato interno accessibile e attrattivo, sono alla radice della superiorità degli Stati Uniti. Il loro schieramento militare risponde a un disegno invariato nel mantenere in pugno i principali colli di bottiglia. L’armata del Comando centrale è stanziata in Bahrein per sorvegliare Hormuz, da Gibuti si monitora Bab al-Mandab, il porto di Singapore è frequentato con regolarità da imponenti gruppi da battaglia, su Gibilterra veglia la base aeronavale militare della US Navy nel porto spagnolo di Rota. E pure la costruzione del canale di Panama obbedì a dettami bellici, dovendo consentire alle navi statunitensi manovre più veloci in caso di minacce congiunte da Atlantico e Pacifico.

Nessun’altra potenza può sfidarne il primato. L’accesso agli oceani è impedito alla Russia a est dalla demografia e a ovest dagli stretti turchi e danesi fuori dal suo raggio di azione. La flotta della Cina, pur ingente, non è paragonabile alla marina degli Stati Uniti. Nella disponibilità strategica dell’Arabia Saudita non solo non figura Hormuz ma, nella storia, solo a fasi alterne, ha esercitato qualche tipo di autorità sul canale di Suez e lo stretto di Bab al-Mandab. I colossi economici della Germania, il Giappone, e l’India, restano confinati al nanismo geopolitico. Le rotte, con la loro influenza aggiuntiva su trasporti aerei e telecomunicazioni globali, garantita dai cavi che attraversano gli oceani, sono dominio, diretto o indiretto, degli Stati Uniti, gli unici in grado di attivarsi con rapidità in tutti i punti nevralgici.

Nondimeno, i chokepoint sono poste in gioco di alcune delle principali partite geopolitiche in corso e il loro valore intrinseco ha determinato l’internazionalizzazione di focolai di crisi. Tra i motivi che alimentano l’intervento di Arabia Saudita e Iran nella guerra civile yemenita c’è la garanzia su Bab al-Mandab. Le provocazioni e gli attacchi occorsi nello stretto di Hormuz hanno generato un collasso delle forniture e uno shock sui mercati energetici con un sensibile rialzo dei prezzi. Intanto, in Gibuti, attracco all’ingresso del Mar Rosso, fanno a gara per realizzare infrastrutture militari Stati Uniti, Francia, Cina, Arabia Saudita e Turchia. E nel Giuk Gap, braccio di mare nell’oceano Atlantico, fra Groenlandia, Islanda e Regno Unito, stazionano sottomarini nucleari di ogni bandiera.

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