Almanacco: l’Intifada dei Coltelli / Conflitto israelo-palestinese
Nell’ottobre del 2015, ebbe inizio da parte palestinese un’ondata di violenza senza precedenti, durata otto mesi. La lunga serie di attacchi a persone con armi da taglio – coltelli, machete e forbici -, ebbe un notevole picco proprio nel trimestre iniziale con una media di tre al giorno. Nei mesi successivi, si aggiunsero le tattiche di investimenti di passanti con macchine in corsa e sparatorie – il 14 e il 10 per cento degli avvenimenti -, ed esplosioni di ordigni rudimentali. L’età di un gran numero fra questi “lupi solitari” fu accertata intorno ai 13 e i 14 anni, non essendo il resto di molto più grande.
Inchieste giornalistiche, nelle quali vennero incluse famiglie degli aggressori, sopravvissuti israeliani e rappresentanti dell’esercito, rivelarono che le azioni erano state di rado pianificate e quasi mai premeditate. Concordarono, inoltre, che si trattasse di adolescenti, di ambi i sessi, esasperati dalla mancanza di un futuro determinata dallo stato di occupazione israeliano, lo stallo politico palestinese, e l’assenza di una soluzione diplomatica. Sulla stessa linea, un rapporto dei servizi segreti di Israele attestò che l’Intifada dei Coltelli era fondata su “sentimenti di deprivazione nazionale, economica e personale”. Un elemento di novità che emerse fu il ruolo dei social media nel processo di radicalizzazione.
A differenza della prima (Intifada delle Pietre, 1987) e della seconda (Intifada di al-Aqsa, 2000), la terza intifada non ebbe sostegno popolare. La risposta fu, comunque, di natura militare con un imponente aumento di check-point, camere di sicurezza, e truppe di istanza a Gerusalemme e in Cisgiordania, dove la maggioranza degli incidenti ebbe luogo. Seguirono arresti a tappeto di militanti palestinesi per un totale prossimo agli 8 mila individui. Le case delle famiglie degli assalitori vennero rase al suolo. Un sondaggio realizzato dall’Israel Democracy Institute divulgò che il 53 per cento dei cittadini considerava legittimo giustiziare sul posto gli attentatori e un magro 23 per cento credeva che il motivo della violenza fosse da imputare al mancato progresso nelle negoziazioni di pace. L’allora sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, incoraggiò la popolazione a considerarsi riserva militare in servizio e a portare le proprie armi.
Un importante antecedente dell’Intifada dei Coltelli fu la violazione del patto sul Waqf, stipulato con il governo israeliano e conosciuto come lo “status quo”. Secondo tale accordo, l’accesso a questo complesso monumentale religioso, situato a Gerusalemme Est, e gestito dalle autorità religiose islamiche dai tempi delle Crociate, con la sola eccezione dell’occupazione israeliana del 1967, è consentito solo per la preghiera dei fedeli islamici. Nei mesi precedenti, infatti, gruppi di religione ebraica avevano infranto l’accordo con ripetute visite alle rovine del tempio di Salomone, una delle quali aveva contato con la presenza dell’allora ministro dell’agricoltura Uri Ariel, accompagnato da una scorta. Non solo le proteste dei palestinesi erano state represse, ma le organizzazioni civili che avevano contribuito al loro coordinamento vennero messe al bando dal ministero della difesa.
Nel corso degli scontri, persero la vita 38 israeliani, dei quali due uccisi da fuoco amico, e 235 palestinesi, fra i quali 59 bambini. I feriti israeliani ammontarono a 558, tra civili e apparati di sicurezza, mentre quelli palestinesi furono quasi 4 mila e oltre 11 mila subirono conseguenze da inalazione di fumo. Nonostante il carattere non coordinato dell’Intifada dei Coltelli, e il fatto che non si potesse attribuire direttamente ad alcuna fazione politica, le misure non vennero allentate, portando a un estremo la vita quotidiana dei cittadini comuni palestinesi, ed esacerbandone il risentimento.
Amnesty International documentò esecuzioni extragiudiziali e segnalò una tendenza generalizzata a sopprimere qualsivoglia soggetto percepito come una minaccia senza appurare la veridicità delle supposte intenzioni. Human Rights Watch addebitò a Israele violazioni dei diritti umani ed espresse preoccupazione per il tiro indiscriminato sui manifestanti. L’organizzazione non governativa israeliana, B’Tselem, verificò in dettaglio dodici occorrenze in cui l’esercito ricorse a un uso eccessivo della forza eliminando gli attaccanti, o presunti tali, anche quando non rappresentavano più un pericolo. Imputarono a Benjamin Netanyahu l’approccio “sparare per uccidere” attuato da polizia e civili armati contro sospetti attentatori. Defence for Children International accusò con prove circonstanziate le truppe israeliane di uccidere in maniera deliberata bambini in Cisgiordania e di impedire ai paramedici di offrire loro soccorso.
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