Pigmei: rifugiati della conservazione

In Africa si trovano oltre 900 mila uomini e donne dell’etnia pigmea, distribuiti in tredici paesi – Angola, Botswana, Burundi, Camerun, Gabon, Guinea Equatoriale, Namibia, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo (Rdc), Ruanda, Tanzania, Uganda e Zambia -, di cui il 60 per cento risiede nella Rdc. Il loro territorio è stato frammentato dai confini dei regimi coloniali e delle nazioni indipendenti costituitesi in età contemporanea, così come dalla pressione antropica circostante. L’ecosistema di questi cacciatori-raccoglitori dalle variegate tecniche venatorie e ittiche, il cui nomadismo stanziale di tribù di poche famiglie segue per tradizione i cicli stagionali in aree circoscritte, è stato messo a rischio, tra altri fattori, da tala di legname, sfruttamento minerario e l’espansione delle superfici da pascolo.

Diffusi nel continente africano, a partire dalla preistoria, attraverso una divisione in grandi sottogruppi, sulla spinta delle ondate migratorie dei belligeranti agricoltori bantù, i baTwa, biAka, bata, mbuti, e mbenga, secondo l’autodefinizione nelle diverse realtà, hanno plasmato comunità imperniate sui valori della solidarietà, la cooperazione, il sostegno mutuo, e la non violenza. Identità e stile di vita si centrano su un legame intrinseco con la natura e una sua profonda conoscenza. Sebbene ogni gruppo abbia la propria lingua, una parola li accomuna: jengi, spirito della foresta. Il 30 per cento del lessico appartiene al substrato linguistico primigenio, non modificato dal contatto storico con altri idiomi, ed è costituto da termini botanici o relazionati con l’estrazione del miele o ancora specializzato in aspetti del bosco pluviale.

Sono gli abitanti autoctoni più antichi dell’Africa, conosciuti in Egitto dal II millennio a.C., e menzionati in una stele come “danzatori degli dei”. Il loro sistema non scritto di musica polifonica, caratterizzato da una ricca improvvisazione contrappuntistica, la cui complessità venne raggiunta in Europa solo nel XIV secolo, viene studiato dagli etnomusicologi, ed è stato dichiarato patrimonio dell’umanità. Per il carattere pacifico e la conformazione anatomica, denominata nanismo insulare, dovuta all’esigua disponibilità di calcio nella dieta e la scarsa esposizione ai raggi ultravioletti nel fitto della vegetazione, sono stati ridotti in schiavitù dai Bantù della Repubblica del Congo sino ai giorni nostri, con episodi di cannibalismo, attestati dalle Nazioni Unite, durante la guerra civile del 1998.

Un consorzio multidisciplinario di ricercatori internazionali, nel 2016, ha condotto il primo censimento con approccio scientifico (pubblicato dalla rivista Plos One della Public Library of Science), applicando metodologie non invasive e appropriate da un’ottica antropologica, che ha rivelato le reali dimensioni di una popolazione che si voleva sottostimare per ragioni economiche e commerciali. A partire da 654 insediamenti noti in cinque stati dell’Africa centrale, è stato ampliato fino a coprire tutti i paesi dove sono presenti, comprese le zone recondite della fascia tropico-equatoriale.

Il risultato pone in evidenza un’emergenza di grandi proporzioni, dove migliaia di individui patiscono condizioni di esclusione sociale, economica e politica. Il nodo sta nella mancanza di riconoscimento dei diritti territoriali e l’espropriazione dell’habitat che ne garantisce la continuità. Le minacce, tuttavia, non sono solo il disboscamento e l’espansione di attività di tipo industriale, ma anche l’ambientalismo di mercato o l’ambientalismo senza umanità, che pur in maniera indiretta si sostenta del razzismo strutturale nei confronti dei pigmei.

In Uganda, i baTwa sono stati evacuati dalle foreste per decreto governativo ai fini dell’istituzione di riserve, che occupano le loro terre, senza il consenso previo stabilito dal diritto internazionale. Il programma, degli inizi degli anni novanta, promosso dal Fondo mondiale per la natura (Wwf per la sigla in inglese) e finanziato dalla Banca mondiale, ha provocato una sedentarizzazione coercitiva, senza compensazioni o protezione sociale adeguate e sostenute. I baTwa sono stati rimossi con la falsa accusa di essere un azzardo per i gorilla di montagna, quando molteplici insediamenti umani persistono indisturbati nelle riserve della savana che ospitano specie in via d’estinzione.

Mentre i baTwa sono precipitati nell’emarginazione e l’abbandono, la miseria, la malattia e la disperazione, i gorilla hanno aumentato il totale delle unità, divenendo una delle principali fonti di attrazione turistica. Ce ne sono circa mille esemplari fra Uganda, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo; la metà di questi in Uganda. Agli indigeni, spinti ai margini della giungla, o nelle periferie urbane degradate, in baracche di legno e sacchi di plastica, non resta che lavorare a giornata in cambio di cibo o mostrare ai turisti per qualche spicciolo le loro usanze e il ricordo della loro libertà. Altrimenti, sono costretti a mendicare o a raccogliere rifiuti edibili nelle discariche.

Senza rappresentazione democratica in parlamento e nei poteri locali, i baTwa non hanno il potere politico necessario per l’affermazione dei propri diritti e, quando provano a candidarsi, vengono ostacolati. Sono oggetto di diffusa discriminazione nell’accesso all’educazione. Nemmeno il 10 per cento dei bambini in età scolare è immatricolato nell’apparato pubblico e i pochi che riescono a frequentare sono costretti a percorrere chilometri a piedi per raggiungere gli istituti di insegnamento. Solo lo 0.5 per cento entra alla scuola secondaria superiore. Il primo baTwa laureato è solo del 2010: una ragazza, Alice Nyamihanda, con il sostegno di borse di studio di donatori internazionali.

Per quanto riguarda l’assistenza medica, i servizi di base vengono erogati da organizzazioni ecclesiastiche e da organismi solidali della società civile, perché i baTwa vengono respinti dalle cliniche, umiliati dallo staff sanitario o limitati nell’utilizzo dei servizi. Quasi un quinto dei minori è malnutrito. La mortalità infantile raggiunge il 38 per cento, mentre per il resto degli ugandesi questo tasso è del 18 per cento; ciò significa che quattro bambini su dieci non arrivano ai cinque anni d’età. La prospettiva media di vita di un adulto spesso non supera i 40 anni.

Seppure questo popolo originario ha vissuto con i gorilla da tempi remoti, e potrebbe contribuire alla loro difesa, grazie all’esperienza di condivisione dello stesso ambiente, e osservazione prossima del comportamento di questi primati, i suoi membri non vengono nemmeno impiegati come guide o tracker nei parchi. Di fatto, si sta cancellando una preziosa memoria di contatto ravvicinato fra esseri umani e animali in un contesto estremo per la sopravvivenza, mentre si procede alla deliberata soppressione di una cultura unica e irripetibile che era rimasta fortuitamente intatta dagli albori della nostra specie.

I baTwa hanno custodito l’integrità ecologica della foresta dalla quale hanno dipeso per millenni e hanno trasmesso di generazione in generazione il sapere connesso all’uso razionale delle risorse e l’etologia di vari generi di flora e fauna. Per esempio, detengono informazione minuziosa sugli alveari, compresi quelli senza pericolo di punture d’api, gli alberi che li accolgono e il comportamento dei predatori. Nel 2006, un’importante spedizione per una ricerca in questo campo scelse i baTwa come referenti accreditati per localizzare i favi ed esaminare i metodi e gli strumenti usati dagli scimpanzé per prelevare il miele. Al momento, invece, persino le soluzioni vincolate alla preservazione di piante rare ed endemiche usate nella medicina tradizionale, che avevano il potenziale di istruire la farmaceutica occidentale, sono scomparse.

Ciò nonostante, i baTwa continuano ad adottare nuove tecniche di agricoltura rigenerativa nei piccoli orti donati dalla United organization of batwa development in Uganda (Uobdu). Queste prevedono il fanya chini, terrazzamento che favorisce la ritenzione di umidità e detiene l’erosione del suolo. Se si pensa che i fattori ambientali sono un problema sostanziale per le colture in Uganda, e determinano un buco del Pil calcolato tra il 4 e il 12 per cento, e che l’erosione contribuisce a tale perdita per l’85 per cento, questi campioni della salvaguardia del biosistema non hanno cessato di offrire il proprio contributo sapiente.

Il caso è stato elevato alla corte costituzionale nazionale che, nel 2022, ha stabilito che i baTwa hanno diritto a essere risarciti per l’allontanamento coatto e la sottrazione delle terre, malgrado non siano in molti a credere che la sentenza sarà regolamentata dall’alta corte di giustizia con coperture e modalità effettive ed eseguita con integrità. In effetti, le decine di migliaia di dollari che l’Uganda riceve nelle casse statali dai proventi del settore turistico sul territorio ancestrale baTwa non li beneficiano in nulla e per loro non è stato contemplato alcun piano di sviluppo. Piuttosto, risiedono in lotti deforestati, appartenutigli da sempre, e ora, per ironia della sorte, presi in affitto da enti non governativi, affinché possano avere un luogo sicuro, dopo essere stati sfrattati con mezzi illegali.

La maggioranza dei baTwa in Uganda vive sul confine con il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo, in 33 insediamenti. In particolare, quello di Michinga Batwa, su un terreno donato dalla diocesi, è il più drammatico. Un centinaio di nativi, ammassati in baracche, condivide un’unica latrina. In questa situazione è impossibile mantenere le pratiche tradizionali e il dialogo intergenerazionale sul rapporto uomo-natura si spezza. Persone che avevano una piena dignità identitaria e culturale diventano sfollati anonimi in una società che li rifiuta e stigmatizza.

La segregazione e l’abuso dei pigmei è ovunque in Africa Centrale, i più poveri fra i poveri nei paesi meno progrediti al mondo, reputati alla stregua di subumani. Sono soggetti ad arresti arbitrari, detenzioni senza giusto processo, e pene spropositate, per reati minori associati alla sussistenza alimentare, mentre i veri bracconieri, collusi con funzionari corrotti, commerciano denti di ippopotamo e animali selvatici. Sono, inoltre, sotto il fuoco incrociato di scorrerie di milizie armate, terrorizzati e costretti a collaborare in qualità di scout, come nella Repubblica Centroafricana, per l’identificazione di beni naturali da saccheggiare. Non è esagerato asserire che in Africa un gorilla vale più di un pigmeo.

Un’indagine di Survival international del 2016 descrive le violazioni dei diritti umani, sistematiche e diffuse, commesse dai guardaparco finanziati dal Wwf e la Wildlife conservation society (Wcs), nel bacino del Congo (Camerun, Repubblica del Congo e Repubblica Centroafricana). Documenta più di 200 gravi casi, avvenuti dal 1989, che includono pestaggi, l’uso di cera bollente sulla pelle nuda e mutilazioni con machete incandescenti, con probabilità solo una piccola porzione di un fenomeno di violenza più vasto fatto di torture e omicidi. Descrive anche forme di persecuzione quotidiana che comprendono intimidazione, distruzione di beni alimentari, e il furto di arnesi di lavoro ed effetti privati.

Come Survival, numerosi organismi internazionali ed esperti indipendenti hanno manifestato preoccupazione negli ultimi tre decenni. Tra questi, si annoverano Forest peoples programme, Greenpeace, Global witness, Oxfam, Unicef, e ricercatori specializzati delle università di Durham, Kent, Oxford e Londra. Il parere è unanime: in nome dell’ecologia non è lecito permettere un genocidio. Le grandi fondazioni della conservazione dovrebbero agire sulle cause e le conseguenze del proprio operato sui popoli tribali e i loro sostenitori esigere che si ponga termine a scelte e prassi che ne compromettono l’esistenza e il futuro.

Le circostanze sperimentate dai pigmei, purtroppo, non sono le uniche. È stato stimato che in almeno quindici paesi, fra il 1990 e il 2014, si sono verificate simili rimozioni forzate che hanno coinvolto 250 mila individui divenuti rifugiati della conservazione. Con la prevista espansione di riserve e parchi, per raggiungere l’obiettivo del Global biodiversity framework di tutelare il 30 per cento di terra e oceano, entro l’anno 2030, molti popoli indigeni temono di restare vittime dello stesso destino, e si stanno coordinando per essere considerati parte integrale delle disposizioni sulla biodiversità e il cambio climatico, in seno alle conferenze delle Nazioni Unite.

 

Questo articolo è stato pubblicato da Solidarietà Internazionale, rivista bimestrale di fatti, storie e racconti dal mondo, del Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale (CIPSI).

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