Le parole della Bambina: diplomazia preventiva
La diplomazia preventiva si colloca nel quadro dell’impegno per la sicurezza e ha come base il riconoscimento della necessità imprescindibile di intervenire prima che una controversia degeneri in un conflitto armato. La conclusione della guerra fredda del secolo scorso aveva suscitato la speranza di poter sormontare gli ostacoli posti sino ad allora dai blocchi antagonisti alla costruzione di un ordine globale pacifico. Allo stesso tempo, il moltiplicarsi dei conflitti dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 ha affermato l’esigenza di una promozione attiva della pace.
Nell’attuale ordinamento internazionale non ci si può ancora riferire a questo tipo di azione nei termini di un obbligo reciproco a carico degli stati; non ci sono, in effetti, tracce concrete di formalizzazione. Tuttavia, le sue premesse si trovano nella Carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore nel 1945, che tra i fini dell’Organizzazione comprende quello di “conseguire la cooperazione nella soluzione dei problemi di carattere economico, sociale, culturale o umanitario […] al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici e amichevoli tra le nazioni, basati sull’uguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli”.
Coesistenza, cooperazione e interdipendenza
Il consolidamento di tale proposito prende piede al termine degli anni sessanta per influsso dell’allargamento della base sociale della comunità internazionale, successivo al compimento dei maggiori processi di decolonizzazione e al drammatico acuirsi della tematica dello sviluppo. Si realizza, così, il passaggio dal diritto della coesistenza al diritto della cooperazione, le cui caratteristiche distintive sono il configurarsi di obblighi positivi, che si aggiungono a quelli tradizionali di astensione, mirati ad assicurare le sovranità individuali, e il superamento dell’ottica bilaterale, a vantaggio dei diritti e i doveri di ogni stato verso il mondo intero.
Una seconda fase si apre all’inizio degli anni settanta. Come conseguenza dell’integrazione delle economie nazionali, prodotta dall’estendersi e dal funzionamento delle multinazionali, si instaura un diritto di interdipendenza. In questo assetto, alcuni valori universali ed essenziali vengono sottratti al libero arbitrio degli stati e diventano oggetto di forme di gestione e tutela fondate sul concomitante operato degli stati: il mantenimento della pace, la salvaguardia dell’autodeterminazione dei popoli, la protezione dell’essere umano e la custodia dell’ambiente.
Pace, valore universale ed essenziale
Dall’accreditamento della pace come valore universale ed essenziale, ne derivano obblighi erga omnes, o nei confronti di tutti, finalizzati alla sua vigilanza, tra i quali la soluzione pacifica dei dissidi. La previsione è contenuta nel dettato dell’articolo 2, paragrafo 3, della Carta delle Nazioni Unite, “I membri devono risolvere le loro controversie internazionali con strumenti pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe a repentaglio”. Questo onere corrisponde agli stati a prescindere dall’intervento degli organi dell’Onu, sebbene questi svolgano, in virtù delle loro competenze, un ruolo di sostegno.
Fra i passi che sono stati mossi, vanno segnalate le elaborazioni sistematiche, realizzate dal 1975, nell’ambito dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), dove si propone un concetto di sicurezza che mette in connessione la pace con il rispetto dei diritti umani e le libertà fondamentali, e collega la solidarietà e la cooperazione economica e ambientale con relazioni interstatali pacifiche e di indivisibilità della sicurezza, secondo cui nessuno degli stati possa rafforzare la propria a spese di quella degli altri. Una pietra miliare è rappresentata dall’agenda per la pace delle Nazioni Unite del 1992, che richiede di individuare situazioni che potrebbero generare contrasto e tentare di rimuovere le fonti di pericolo prima che scoppi la violenza; impegnarsi in un’attività di pacificazione, laddove esploda la guerra, volte a risolvere le questioni che hanno condotto allo scontro; preservare la pace al cessate il fuoco e assistere le parti nell’attuazione degli accordi raggiunti; aiutare nella ricostruzione di istituzioni e infrastrutture e legami di mutuo benefìcio con le nazioni contro cui si è combattuto; e soprattutto affrontare le cause profonde dei conflitti.
Status giuridico della democrazia preventiva
D’altra parte, se nel settore della difesa dell’ambiente l’attribuzione di norme accessorie, che impongono standard di comportamento, prevengono gli illeciti, o ne impediscono la continuazione delle sequele materiali, ha avuto un’evoluzione, per esempio, con la disciplina internazionale dell’inquinamento, in quello della pace come interesse collettivo non si sono concretizzate una volontà e una pratica intergovernative per la creazione di uno status giuridico e la formazione di un diritto consuetudinario che la garantiscano. I segni dell’incertezza e la fluidità in cui versa sono evidenti nella debole attestazione di quei principi tendenti a stabilire l’esistenza di una responsabilità degli stati, relativa al debito utilizzo di tecniche specifiche di diplomazia preventiva. Il progresso della materia si trova a uno stadio poco avanzato ed è contraddistinto da dichiarazioni di natura per lo più raccomandatoria prive di rilievo prescrittivo.
L’agenda della pace è stata una vera occasione perduta per trasformare il postulato della diplomazia preventiva in jus cogens o diritto cogente. Traducendola in semplici linee guida, per pressione di quei paesi che non hanno inteso cedere all’Onu la capacità di esercizio nella gestione dei conflitti, si è lasciato spazio di manovra a visioni di corto respiro, e decisioni disordinate, incongruenti e inconcludenti, inquinate da altri fini, di cui siamo stati testimoni, fra gli altri, in Libia, Siria, Iraq, sedicente stato islamico, Yemen, Afghanistan, Ruanda, Congo, Somalia. L’energico segretario generale che le diede impulso, Boutros Boutros-Ghali, non venne rieletto a causa del veto di Washington. Persino nel caso della dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto alla pace del 2016, l’amministrazione di Barack Obama, con vari paesi dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), ha opposto voto contrario, mentre l’Italia del presidente del consiglio Paolo Gentiloni si è astenuta.
Diritto alla guerra vs dovere della pace
Con questo passaggio, l’ordine mondiale, del quale gli Stati Uniti ambiscono a occupare il centro, anche grazie al sostegno degli alleati, restituisce vigore al vecchio diritto internazionale della sovranità degli stati, e il loro diritto a fare la guerra, con potere discrezionale, in merito alla scelta dei mezzi e la valutazione dei risultati. Si tratta di una concezione diametralmente opposta a quella contenuta nella Carta delle Nazioni Unite, e nell’Articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani sul dovere della pace, che include la giustizia sociale ed economica. Una pace positiva intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, relazioni e politiche di cooperazione, all’insegna del motto “se vuoi la pace, prepara la pace”. Il rovescio della pace negativa, parentesi tra una guerra e la successiva, durante la quale si potenziano gli arsenali militari, convenzionali e nucleari, e si coltivano sentimenti nazionalistici, a scudo della convenienza unilaterale, da perseguire ovunque e con ogni espediente. In ultima istanza, la teorizzazione della guerra preventiva, in violazione del vigente diritto internazionale, è antitetica alla diplomazia preventiva.
La Carta delle Nazioni Unite è chiara: tutte le guerre sono illegali; nondimeno, vengono provocate, esportate, combattute per procura, alimentate e finanziate. L’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977, sancisce che “qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”. L’articolo 11 della Costituzione italiana, in sintonia con il diritto internazionale, cita “L’Italia ripudia la guerra come […] mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. La Carta, a quasi otto decenni dalla sua entrata in vigore, rimane inattuata per le sue parti più innovative e strategiche.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano indipendente online di geopolitica e politica estera Notizie Geopolitiche.
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