La lotta per il primato fra la teocrazia sciita iraniana e le monarchie sunnite del Golfo Persico, alla quale si è unita la Turchia, attraversa le guerre in corso nel Medio Oriente. Entrambe le parti hanno galvanizzato, e militarizzato, l’identità religiosa, per mobilitare masse e minoranze, secondo i casi, e aumentare la propria sfera di influenza. Le origini dello scisma rimontano agli albori dell’Islam e i due blocchi hanno sviluppato diverse interpretazioni delle scritture sacre e pratiche specifiche, sebbene siano due facce della stessa moneta e la posta sia sempre stata squisitamente politica.
Questo prolungato antagonismo ha aggravato disfunzionalità nel funzionamento degli stati, eroso capitali sociali costruiti a fatica e catalizzato estremismi consolidati e incipienti. L’intervento di Israele, al fianco delle potenze sunnite, ha complicato un teatro, in cui il programma nucleare iraniano occupa un ruolo chiave. La variabile può condurre Washington e Teheran su una rotta di collisione, con un effetto domino dal Mediterraneo orientale – Libano, Siria, Iraq, Palestina, Giordania e Libia – all’Afghanistan, e in assenza di un processo diplomatico che disinneschi le tensioni, non è azzardato ipotizzare una deriva. Basti pensare che Ebrahim Raisi, presidente dell’Iran, nel discorso all’Onu di settembre, ha decretato la fine della credibilità del sistema egemonico statunitense.
Per di più, le cause che hanno determinato l’insorgenza di al-Qaeda e il sedicente stato islamico (Isis, per la sigla in inglese), e la sanguinosa stagione del terrorismo internazionale di stampo integralista che li ha accompagnati, non sono state rimosse e si è venuto diffondendo un sentimento di rivalsa. L’insediamento dei talebani a Kabul, e il caos che ne è derivato, sono un esempio concreto del rischio latente per lo stato di diritto e l’accesso a libertà essenziali. Gli sciiti Hazara sono stati vittime di una depurazione da istituzioni e amministrazione; espulsi da case e città, hanno visto i loro beni confiscati. Lo stato islamico Khorasan è, inoltre, autore di azioni dinamitarde a moschee sciite in Afghanistan.
Il cambio di direzione negli affari esteri di Joe Biden, dettato dalle sfide generate dalla Cina in altri punti nevralgici dello scacchiere geopolitico, lascia un vuoto a beneficio di rivalità settarie che hanno dimostrato di saper proiettare minacce globali. Il disimpegno degli Stati Uniti si produce, peró, in un quadro in cui la Russia ha guadagnato spazio e prestigio, si è imposto un esecutivo dalla linea dura in Iran, e la galassia sunnita ha perso fiducia in Washington. Senza un rinnovato accordo con Teheran, gli Stati Uniti potrebbero, dunque, ritrovarsi di nuovo risucchiati dal vortice medio orientale, nonostante la risoluzione di chiamarsi fuori con il recente ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Il fallimento di Barack Obama, nella rimozione dell’alawita-sciita Assad al-Bashar in Siria e il negoziato sul nucleare con l’Iran, ha installato dubbi nell’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri alleati sunniti, in svantaggio nelle guerre per procura contro l’Iran, in Iraq, Siria e Yemen, sulla lealtà statunitense e incrementato l’instabilità regionale. Il tentativo di Donald Trump di restaurarne la fiducia, con la campagna di massima pressione economica su Teheran e l’eliminazione di comandanti delle milizie sciite, non ha fermato l’escalation. Offensive a petroliere nel Golfo e basi aeree americane in Iraq, hanno portato Stati Uniti e Iran sul bordo di uno scontro diretto. L’Iran è un attore più assertivo che nel passato: vicino a ottenere la bomba nucleare, rappresenta una garanzia per quanti ne cercano appoggio e protezione.
D’altro canto, Qatar, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti hanno foraggiato fazioni armate sunnite, in forma continua e sostenuta, permettendo la costituzione e l’espansione dell’Isis, e la concrezione della sua utopia violenta di restaurazione del califfato islamico, in posizione antisciita, e antiumana. Quest’ultimo, sconfitto, in Iraq e Siria, da una coalizione tattica, formata da Russia, Stati Uniti e Iran, si è ricompattato, perpetrando atrocità nel continente africano, e costituendo un pericolo non solo per l’Iran, ma per l’Europa e gli Stati Uniti, come dimostra un piano intercettato, del gruppo somalo al Shabab, per un attacco sul suolo americano.
Un altro totalitarismo incede da quella che fu la sede del califfato islamico fino al 1924, ovvero la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, auto dichiarato erede dell’impero ottomano e presunto modello democratico per il mondo arabo. Sostenitore, all’indomani della Primavera Araba, della corsa alle poltrone della Fratellanza Musulmana, finanziata dal Qatar, Erdogan si è guadagnato l’inimicizia di Riyadh e Abu Dhabi nella competizione per la difesa della causa sunnita in Iraq, Libano e Afghanistan, peraltro ottenendo risultati di maggiore evidenza dei rivali, che si sono visti costretti al ritiro da alcuni scenari. Una moltiplicazione di contraddizioni in una intricata partita transnazionale, scandita da affermazioni precarie.
I punti nodali sono l’Iraq, la Siria, il Libano e lo Yemen. L’apatia, registrata alle ultime elezioni irachene, ha giocato a favore di figure politiche estremiste, ma lo status quo è di debole tenuta, tra pressioni dal Golfo Persico e dall’Iran, e il tentativo di assassinio del primo ministro, Muqtada al-Sadr, dimostra la presenza di intenzioni destabilizzatrici. Il destino della Siria è legato a quello dell’Iraq, con l’elemento di imprevedibilità della Turchia. Lo stato nello stato, costituito da Hezbollah, e la costante intimidazione missilistica di Israele, scatenano, in Libano, un parossismo di violenza. Gli Houthi, con il sostegno dell’Iran, hanno dato scacco alla coalizione guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, in difesa del governo sunnita, in uno Yemen diviso da sette locali e ingerenze straniere.
Tuttavia, l’elemento di traino del fondamentalismo, oggi, è l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. L’avanzata dei talebani ha sollevato l’ammirazione dei jihadisti che ne hanno celebrato la perseveranza ventennale e la metodologia di infiltrazione nei gangli della gestione pubblica e costruzione di legittimità nella vita delle comunità. Al-Qaeda nel Sahel, India e Yemen, ha dichiarato che si sarebbe segnato un cammino oggettivo di trionfo in altri contesti. I talebani, sin dall’inizio, hanno compreso la necessità di una strategia a livello locale, impiantando consigli provinciali e municipali, che hanno costituito la spina dorsale dell’insorgenza, risolvendo problemi delle persone, in sostituzione al governo e in contrapposizione ai suoi comportamenti corruttivi e predatori.
Gli Stati Uniti, invece, si sono concentrati su azioni rapide in risposta ad atti mirati – esplosioni, rapimenti e uccisioni -, non prestando sufficiente attenzione all’abilità dimostrata di posizionarsi nel tessuto sociale e dar forma a un’organizzazione ibrida tra un gruppo terroristico e un partito politico, con capacità di fornire risposte a esigenze sociali. Gli jihaidisti di Hayat Tahrir al-Sham nel nord della Siria e affiliati di al-Qaeda nel Mali, sull’onda del successo afghano, stanno intraprendendo relazioni diplomatiche con villaggi e destinando risorse per attività di ordine proselitista, fra cui sussidi per il costo di alimenti ed energia elettrica e migliorie ai servizi sanitari.
La comunità internazionale si trova ostaggio dei talebani. La presa del potere è stata totale e, per deliberata volontà, si trovano in controllo dell’esecutivo, la camera legislativa, l’organo giudiziale, le forze di sicurezza, i servizi di intelligenza, la polizia e l’esercito. Non devono rispondere a nessuna constituency o governare per consenso. L’unica possibilità, per scongiurare un disastro economico e umanitario, e in ultima istanza uno scontro civile, dipende dal loro operato, ma affinché questo sia efficace, allo stesso modo dell’esecutivo anteriore, devono ricorrere a una significativa infusione di denaro liquido e assistenza per lo sviluppo. Un miliardo di dollari è in arrivo dall’Unione Europea.
L’esperienza insegna che compagini di matrice eversiva, trovandosi a carico dell’amministrazione di territori, diluiscono la spinta ideologica nel pragmatismo legato alle esigenze della realtà quotidiana. D’altro canto, queste non divengono automaticamente meno radicali nel trascorso del tempo ed, essendo soggette a sollecitazioni del nocciolo duro, nel loro agire non sempre prevalgono posizioni moderate. Malgrado ciò, la responsabilità di accompagnare l’evoluzione progressiva dei talebani in espressione politica non può essere evasa, e le sanzioni, che si rendano opportune, dovranno essere calibrate con il fine di non danneggiare la popolazione.
Questo dialogo, sospeso dal 2001, sulla base della falsa percezione di vittoria assoluta da parte degli Stati Uniti, va lanciato con carattere di urgenza, per affrontare i bisogni presenti e futuri della cittadinanza, e senza remore di legittimare un nemico, con il quale non si può evitare di confrontarsi. Un avversario che potrebbe non essere affidabile, che continuerà a esercitare provocazioni e mantenere posizioni distanti dalla logica dei diritti umani, ma che per questa esatta ragione deve essere condotto a un tavolo negoziale.
Questo articolo è stato pubblicato su EinaudiBlog, il blog della Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica, economia e storia.
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