Il 90 per cento del petrolio estratto dai paesi che si affacciano sul golfo Persico – il 20 del totale globale, circola per lo stretto di Hormuz, unica via di accesso al mare aperto per gli otto grandi esportatori arabi alleati degli Stati Uniti. Sia l’Iran sia gli Stati Uniti hanno forti interessi nell’area. I terminali dell’Iran, quarto produttore al mondo, si trovano al suo interno, prima sull’isolotto di Kharg, e in seguito agli attacchi dell’Iraq, trasferiti su quello di Larak. Se pure gli Stati Uniti hanno diminuito il consumo di greggio dal medio oriente, hanno investito in basi nel Qatar e nel Bahrein, dove è stanziata la quinta flotta americana, accessibili solo dallo stretto, il cui punto più angusto conta 6.5 chilometri, a ridosso della costa iraniana.
I fatti delle ultime settimane, con il sequestro del mercantile Grace-1, da parte britannica, su mandato statunitense, per il sospetto di traffico di petrolio, in violazione delle disposizioni dell’Unione Europea, e quello dell’inglese Stena Impero, da parte iraniana, per presunta infrazione del codice marittimo, affondano le radici in un passato non lontano. Il confronto fra i due paesi a Hormuz risale al 1987, quando gli Stati Uniti intervennero nel conflitto tra l’Iran e l’Iraq, per prevenire aggressioni alle navi cisterna del Kuwait. Nel 1988, ebbe luogo la guerra delle petroliere, nel corso della quale vennero silurati incrociatori iraniani. Annunci di blocco dello stretto, provocazioni, incidenti e rappresaglie, si sono susseguiti in forma reciproca. Tuttavia, la posta al momento è alta.
La sicurezza del golfo Persico è importante per gli Stati Uniti per ragioni geopolitiche, piuttosto che energetiche, e questa si gioca nello stretto di Hormuz. L’Iran, dal canto suo, ha imparato dalla storia che può acquisire una posizione negoziatrice con gli Stati Uniti con azioni di disturbo e sabotaggio a cargo. In tempi di pesanti e rinnovate misure coercitive contro la commercializzazione del petrolio iraniano, la repubblica islamica, le cui entrate statali dipendono per circa l’80 per cento dalla materia prima, cerca di aprirsi un varco nella campagna di massima pressione dell’amministrazione Trump.
Lo stretto di Hormuz è un teatro insidioso e una delle zone più instabili del pianeta, sebbene le leggi internazionali garantiscano la libertà di transito. Dopo il protettorato del Regno Unito, protrattosi dal 1820 al 1970, e le rivendicazioni cadute nel vuoto della Persia, nessuno ne controlla l’interezza del territorio, caratterizzato da un mosaico di fazioni. L’Oman, a sud, ha operato da intermediario fra gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e l’Iran, ma l’anziano Qaboos non ha un erede chiaro, e il nuovo sultano potrebbe rivelarsi non conciliante con l’occidente. L’incertezza riguardo alla successione potrebbe spingere le tribù della provincia del Musandam, sempre mantenutesi fuori dal raggio di Muscat, a una ricerca di autonomia. In Iran, a nord, milita il movimento separatista sunnita baluci. Gli Stati Uniti, invece che sul versante del contrasto, ricaverebbero maggiori benefici da una migliore comprensione di questa complessa geografia umana. Assalire l’Iran nello stretto di Hormuz, al contrario, sia sulla costa, dove sono presenti gruppi belligeranti, sia a Larak, dove negli anni sono emigrati lavoratori dall’Oman, ha il potenziale di creare una convergenza sfavorevole.
Malgrado le minacce, nessuno vuole che la situazione sfugga di mano. L’intervento in Yemen ha indebolito l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar è alle prese con le restrizioni imposte dai paesi del Golfo, tutti sono stati colpiti dal calo del prezzo del petrolio e stanno valutando una ristrutturazione delle proprie economie, alcuni si contrappongono a movimenti dissidenti alla ricerca di libertà civili e modelli di convivenza democratica. Un ampio fronte, trasversale al partito democratico e repubblicano, negli Stati Uniti, esercita pressioni per un rapido ritiro dal medio oriente. L’Iran fatica sotto il giogo delle sanzioni. Del resto, Washington, nonostante la retorica dei giorni precedenti, non ha reagito all’abbattimento del drone statunitense nello spazio aereo iraniano sullo stretto di Hormuz.
Per certo è diventato necessario trovare un arbitro in un contesto dove i rapporti di forza sono drasticamente cambiati. Dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, l’Iran ha iniziato ad arricchire uranio, ma l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avevano già ricevuto materiali e know-how dagli Stati Uniti per sviluppare capacità nucleare. Il doppio standard è evidente. Israele non è mai nemmeno entrato nel trattato di non proliferazione, e si è lasciato che riempisse gli arsenali con centinaia di testate. La denuclearizzazione del medio oriente non può funzionare su questa premessa. Per assurdo, un Iran trasformato in eminenza nucleare potrebbe generare un punto di equilibrio nella regione.
Mentre Londra e Teheran escludono uno scambio per mettere fine allo scontro, convinti della legalità del rispettivo operato, Trump chiama a raccolta Francia, Germania e Gran Bretagna per una non precisata missione di difesa nello stretto di Hormuz. Berlino indugia e sollecita un’analisi di scenario. La Gran Bretagna, in piena Brexit, ne richiede una guida di un’Unione Europea dalla provata inettitudine in politica estera. L’Iran afferma di essere il garante del golfo Persico e lo stretto di Hormuz e si prepara a esercitazioni con la Russia e l’avallo della Cina, a cui vende milioni di barili aggirando i divieti, senza che in questo caso vengano catturate navi o profferito verbo. In definitiva, non c’è attore che possa essere considerato imparziale o affidabile.
Questo articolo è stato pubblicato dalla testata giornalistica web di notizie e media Il Faro sul Mondo.
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Nonostante le accuse all’Iran, e le prove addotte, l’attacco del mese scorso contro le strutture petrolifere saudite non è stato seguito da una risposta militare di Riad o Washington. L’alleanza sembra scricchiolare sotto il peso delle crisi politiche interne.